Riportando in officina un libro bello e sbagliato

   

    Si vuole che Newton concepisse la prima idea della gravitazione universale tenendo in mano una mela caduta dall’albero che gli dava refrigerio nella calura dell’estate. Non sappiamo se la mela l’avesse colpito, e ovviamente non siamo neppure certi della veridicità dell’episodio. Ma indipendentemente dal fatto che sia accaduto o no, esso ci consegna un ammaestramento notevole. Quel racconto propone infatti, in strettissima connessione, una teoria molto astratta (come è appunto quella di Newton, capace di raccogliere in un sistema di relazioni matematiche i movimenti effettivi dei pianeti) e la semplice osservazione empirica. L’indicazione è che esiste una forza intrinseca dell’osservazione immediata, tale da fissarla come reale punto di avvio dello stesso svolgimento concettuale.

   Anche nel caso della Teoria della Totalizzazione, che si propone di descrivere entro un sistema di relazioni i movimenti e le caratteristiche della società capitalistica contemporanea, l’osservazione empirica è chiamata a svolgere il suo compito, delineando immediatamente il punto che deve essere superato e indicando una possibile direzione di marcia. L’osservazione empirica non può fare più di questo, ma che lo faccia è decisivo.

   Si parva licet, a un piccolo gruppo di marxisti militanti (tra cui l’autore di queste pagine), formatisi nel crogiuolo ribollente del Sessantotto, successe un po’ la stessa cosa che accadde a Newton. Inciamparono, un bel giorno, in una osservazione che solo apparentemente sembrava banale: il mondo capitalistico che avevano attorno sicuramente era strapieno di guerre, di miserie, di infelicità e di orrori sparsi ai quattro angoli del globo; ma era anche, nello stesso tempo, più ricco, più progredito, più denso, più capace, più vario e più informato di quanto non lo fosse stato all’inizio del secolo. Lo testimoniavano le persone anziane, i documentari televisivi, le ricerche storiche: si moriva meno per malattia, la durata media della vita s’allungava, il benessere si diffondeva, i progressi della tecnica non conoscevano limiti. Il più avanzato dei paesi capitalistici arrivava persino a mettere un piede sulla luna…

   Considerando senza pregiudizio ciò che vedevano, questi giovani ribelli furono colpiti dall’improvvisa certezza di aver lungamente convissuto con una teoria alquanto inadeguata a spiegare il mondo in cui vivevano; ed ebbero di fronte, con sorprendente evidenza, il fatto che la realtà davvero non era come se l’erano figurata. Questa sorpresa e questa scoperta avvennero all’incirca venticinque anni fa, alla metà degli anni Ottanta. Di lì a poco, la caduta del muro di Berlino avrebbe segnato uno spartiacque d’epoca e reso evidente a tutti che molte delle coordinate interpretative del Novecento dovevano essere rivisitate.

   Tutto avrebbe chiesto di essere ridiscusso, e il dibattito si estese, sotto le picconate del 1989, alla durata stessa del secolo XX. Ma un tale lavoro di ricostruzione teorica, sul punto decisivo dell’analisi delle relazioni capitalistiche, per quel gruppo di giovani era già in pieno svolgimento. In quegli anni apparve sulla loro piccola rivista,[i] proprio con riferimento alle nuove particolarità del rapporto di capitale, il neologismo “totalizzazione”. In verità la parola era già adoperata in contesti squisitamente filosofici, ma, almeno nell’ambito della cultura marxiana, si presentava come vero e proprio neologismo. E in ogni caso, nessuno aveva mai adoperata quella parola con riferimento ai rapporti capitalistici di produzione.

   Sto parlando, in buona sostanza, del capitalismo contemporaneo, quello che già venti o venticinque anni fa si presentava con le stesse caratteristiche di oggi. E la teoria che entrava in crisi, nella quale s’erano formate ed erano cresciute intere generazioni di militanti dall’Ottobre del 1917 in poi, era quella che affermava il carattere assolutamente putrescente del capitalismo stesso. La contraddizione era stridente: da un lato, l’evidenza di un capitalismo in piena salute, non semplicemente sul piano politico, nei rapporti di potere tra le diverse classi sociali, ma vigoroso proprio sul piano economico, per la sua naturale disposizione a mettere a profitto le capacità produttive degli esseri umani e le risorse del pianeta; dall’altro lato, un giudizio formulato molti decenni prima, all’inizio del secolo, che descriveva questo stesso capitalismo alla stregua di un moribondo che non voleva morire, che si dibatteva invano per sfuggire al suo declino continuo e al suo imminente destino di morte.

   La visione novecentesca del capitalismo come “putrescenza è stata presente, senza differenze di rilievo, in tutte le varie articolazioni dei rivoluzionari comunisti, indipendentemente dalla profondità dei contrasti politici che li hanno divisi nel corso del secolo; e non è stata diversa neppure nelle file più autentiche dei socialdemocratici riformisti, almeno fino a Bad Godesberg.[ii] La convinzione comune era che il capitalismo non possedesse più forza espansiva, che fosse privo di capacità di presa sul mondo e non avesse alcuna effettiva possibilità di controllo dei fattori economici e sociali.

   Sicuramente il dubbio sulla plausibilità di un tale giudizio sarà venuto anche ad altri militanti, in contemporanea o in momenti diversi, un po’ prima o un po’ dopo i giovani della rivista Officina; e del travaglio di quel piccolo gruppo di attivisti non metterebbe conto neppure parlarne, se quella improvvisa scoperta non si fosse tradotta in una spinta a spiegare i motivi stessi della contraddizione tra la propria teoria di riferimento e la realtà che si aveva di fronte. C’erano almeno tre strade per farsene una ragione: dire che il mondo aveva torto; dire che gli indicatori sullo stato di salute del mondo erano inesatti; dire che la teoria era insufficiente. Le prime due strade avevano come conseguenza un lavorìo di selezione, più o meno arbitraria, dei dati e delle osservazioni, in direzione di ragionamenti finalizzati a far combaciare comunque la teoria ereditata con quello che si vedeva empiricamente; la terza comportava non solo il compito gravoso di correggere gli errori, e perciò di mettere mano ad una nuova teoria, ma anche di spiegare perché nessuno l’avesse fatto fino ad allora.

   Con l’incoscienza tipica di una generazione abbeveratasi all’iconoclastia del lungo Sessantotto italiano, Officina scelse di percorrere la terza strada. Lo fece con molte approssimazioni, e con incompiutezze ed incertezze di ogni tipo. Ma lo fece. O per lo meno, provò a farlo, incamminandosi su sentieri davvero pochissimo battuti. Che quei militanti non avessero soggezione neppure dei principali “testi sacri” del movimento operaio, si spiega con la particolarità dei tempi; e che, di contro, i teorici più noti e le riviste più consolidate continuassero a muoversi nello stesso solco di sempre, pure si spiega con le caratteristiche dei tempi…

   Quel gruppo esiguo di nuovi eretici individuò con estrema nettezza il punto di “crisi teorica”, fissandolo nel mancato sviluppo della critica dell’economia politica nel corso del Novecento; al tempo stesso decise che occorreva mantenere comunque le acquisizioni del marxismo almeno sulle immediate composizioni interne alla relazione di capitale; e infine si convinse che era necessario prendere di petto la questione della putrescenza del capitalismo e la connessa tesi dell’onnipotenza del capitale finanziario. Il punto di partenza non poteva non essere il libro, bello e sbagliato, che aveva formato tanta parte dei comunisti del Novecento: L’imperialismo fase suprema del capitalismo. E così non potrà non essere anche per me, tanto più che qui ripiglierò, ampliandola e sistematizzandola, proprio quella specifica elaborazione di venti, venticinque anni or sono.

   Nel suo famoso testo, redatto tra il gennaio e il giugno del 1916 a Zurigo, e pubblicato nella primavera dell’anno successivo a Mosca, Lenin, sulla scorta anche dei lavori di John Atkinson Hobson e Rudolf Hilferding,[iii] affermava senza mezzi termini che il capitalismo era arrivato ormai al suo capolinea storico, e che comunque non potesse andare oltre lo stadio dei monopoli e del capitale finanziario. Si trattava, in effetti, del capitalismo che Lenin aveva davanti: i trust, i cartelli, l’onnipotenza delle banche, l’oligarchia finanziaria, la spartizione del mondo tra cinque o sei grandi nazioni. Era davvero l’età dei monopoli e dell’imperialismo. La tesi di fondo suggeriva una connessione strettissima tra la produzione in regime di monopolio e la finanziarizzazione dell’economia:

 "Concentrazione della produzione; conseguenti monopoli; fusione e simbiosi delle banche con l’industria: in ciò si compendia la storia della formazione del capitale finanziario e il contenuto del relativo concetto".[iv]

    

  Suggeriva inoltre che la condizione di monopolio e la finanziarizzazione dei rapporti capitalistici avrebbero prodotto una stagnazione non congiunturale ma strutturale. O meglio, l’economia avrebbe potuto anche crescere quantitativamente, ma si sarebbe trattato, in ogni caso, di una crescita fittizia, caratterizzata soprattutto dal consumo invece che dalla produzione. E per quanto concerneva la produzione, essa non avrebbe potuto altrimenti configurarsi che come pura lacerazione del tessuto produttivo preesistente. Una produione, in ultima analisi, di contrasti, guerre e distruzione:

 "Le alleanze “inter-imperialiste” o “ultra-imperia- liste” non sono altro che un momento di respiro tra una guerra e l’altra… Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste".[v]

         

   In realtà, il lavoro di Lenin aveva due obiettivi politici precisi.

   Anzitutto, era teso ad affermare l’insopprimibilità dello squilibrio all’interno dello sviluppo capitalistico: i monopoli e la finanziarizzazione dell’economia non avrebbero messo capo ad alcun “super-imperialismo” razionalizzatore della società e del rapporto di capitale.[vi] Anzi, i contrasti e le contraddizioni si sarebbero vieppiù acuiti, e la guerra mondiale stava lì a dimostrarlo in tutta la sua virulenza.

   Il secondo obiettivo era di additare il nazionalismo presente nella classe operaia e l’opportunismo presente nei partiti socialisti come strettamente connessi alla dinamica economica e soprattutto ai sovrapprofitti dell’imperialismo, e ciò in conseguenza della loro parziale redistribuzione anche a favore di uno strato relativamente ristretto di lavoratori, la cosiddetta “aristocrazia operaia”, vera propaggine della borghesia nel seno stesso del proletariato. In sostanza, Lenin intendeva riconfermare la necessità della lotta rivoluzionaria del proletariato e l’alternativa complessiva di società rispetto al capitalismo.

   In questa sede, tuttavia, interessa l’analisi economica in sé e per sé, così come emerge dal libro di Lenin. A mio avviso, quelle pagine appaiono convincenti e argomentate quando descrivono i monopoli e la presa che essi hanno sull’insieme della società.[vii] Meno persuasiva è la conclusione teorica, sviluppata in particolare nel capitolo VIII, che è significativamente intitolato “Parassitismo e putrefazione del capitalismo”. Se poi colleghiamo la descrizione alla conclusione, diventa chiaro che, per Lenin, la presa dei monopoli sulla società non comportava in alcun modo uno sviluppo delle forze produttive. Saremmo piuttosto in presenza di una mera attività di rapina. L’idea è che il monopolio, come produce una mancanza di stimoli all’innovazione tecnologica, così scoraggia un impiego produttivo anche per i capitali accumulati. Finanche la produzione di merci, sebbene continui a dominare e a essere considerata come base di tutta l’economia, sarebbe, in realtà, “già minata”. Così Lenin:

"In generale il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale o produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario … comporta una posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria".[viii]

  

  In una siffatta condizione, la gran parte degli impieghi di capitale potrà solo trasferirsi sugli armamenti, sulle politiche di guerra e sulla disputa coloniale di un modo già spartito.[ix] Più in generale, poiché le cose sono considerate dal punto di vista del comando del monopolio, l’argomentazione non potrà che insistere sulla forza di trascinamento della rendita di posizione, cioè sui fattori che incoraggiano la staticità del capitalismo e la tendenza delle principali economie alla semplice rapina.

  Indubbiamente il quadro disegnato dalle pagine di Lenin coglie bene le dinamiche immediate dell’imperialismo; tuttavia non tratteggia con la stessa efficacia i processi di più lunga durata. È realistico ma poco veritiero.

   Intanto, va sempre tenuto presente quello che lo stesso Lenin ribadisce più volte, e cioè che non esiste il “superimperialismo”, sicché ai monopoli si contrappongono altri monopoli e la costruzione dei cartelli può avvenire solo in contrasto con altri simmetrici cartelli. In secondo luogo, per il solo fatto che la figura predominante diventi adesso il rentier (vale a dire il "tagliatore di cedole", l'investitore che vive di semplici dividendi azionari e interessi bancari), non viene affatto meno la legge fondamentale del sistema capitalistico, e cioè il ciclo D-M-D1, denaro-merce-denaro accresciuto. Né il fatto che in tutti i paesi più avanzati le banche entrino a vario titolo nell’industria e costruiscano capitali finanziari-industriali di proporzioni smisurate, modifica la natura effettiva dei processi di produzione. Per il capitale il principio non cambia: l’investimento deve essere remunerativo. Se la rapina remunera, la tentazione per i capitalisti di trasformarsi in grassatori, e finanche in briganti di strada, sicuramente s’accresce, tanto più se vivono concretamente fuori dai circuiti della produzione, nei salotti dorati dei rentier. Ma la pura rapina può essere remunerativa solo in un arco concentrato di tempo e dentro circostanze specifiche irripetibili; e in ogni caso non potrebbe mai soddisfare, da sola, l’esigenza di valorizzazione di tutta la massa dei capitali accumulati. Questa richiede anzitutto impieghi “normali”, vale a dire investimenti che scompongano il lavoro in "lavoro necessario" e "plus-lavoro", e che, per tale via, valorizzino gli anticipi.

   Segnalo, in sostanza, un andamento contraddittorio nell’argomentazione puramente economica di Lenin. Da un lato, egli insiste sulla vigenza della concorrenza anche nell’epoca dei monopoli e afferma con chiarezza che i monopoli “non la eliminano”. Essi provengono, anzi, dal progredire stesso della libera concorrenza, come risultato del processo di ampliamento continuo della produzione e della concentrazione delle forze produttive che la stessa concorrenza facilita; e con quella poi “coesistono, originando così una serie di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti”.[x] Dall’altro lato, tuttavia, Lenin sminuisce ciò che la concorrenza naturalmente porta con sé, ovvero l’innovazione tecnologica e l’intensificazione generale dello sfruttamento del lavoro immediatamente impiegato nei processi produttivi (la qual cosa rappresenta ciò che, dal versante capitalistico, si qualifica normalmente come “sviluppo”). Inoltre proclama i rentiers, e in generale l’oligarchia finanziaria, come le figure predominanti in epoca imperialista, ma contemporaneamente sottovaluta l’esigenza obiettiva dei capitali di poggiare stabilmente sul valore d’uso della forza-lavoro e di dar vita a un tessuto stabilizzato di investimenti produttivi di valore.

   La guerra può rappresentare, come in effetti ha rappresentato, il punto di approdo di tutte queste spinte, tanto quelle che Lenin sottolinea di più, quanto quelle che sottolinea di meno. Questa la sua sintesi conclusiva:

 "Si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale definizione conterrebbe l’essenziale, giacché da un lato il capitale finanziario è il capitale bancario... fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali, e dall’altro la ripartizione del mondo significa passaggio… alla politica coloniale del possesso mono- polistico della superficie terrestre definitivamente ripartita… L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici.[xi]

    

  E’ evidente che un siffatto mondo implica la tendenza crescente al militarismo e alle guerre. Ma ciò non toglie che il percorso verso la guerra e la guerra stessa concorrano di per sé alla crescita della potenza produttiva generale. Tale elemento manca nell’analisi di Lenin; o meglio, è un dato che non viene considerato con la necessaria attenzione. Egli sottolinea che i monopoli controllano la società, e che anzi il loro controllo arriva fino al punto che “i monopoli statali e privati s’intrecciano gli uni con gli altri”[xii], ma non individua il principale effetto di una tale situazione: ovvero, che nella connessione fra monopoli e società, la capacità produttiva sociale non potrà che crescere.[xiii] È questo il fatto strategicamente decisivo.

   I monopoli, in altri termini, socializzano la produzione dei fattori economici capitalistici ad un livello molto più avanzato e diffuso di quanto non potesse avvenire nell’epoca della libera concorrenza. Coi monopoli il grande pilastro della ricchezza continua ad essere il lavoro attivato nel tempo di lavoro immediato; ma questo tempo di lavoro immediato si attiva ora con un sistema complesso di combinazioni all’interno dei settori produttivi, e anche nelle relazioni tra i diversi settori produttivi. E tale caratteristica era del tutto ignota nell’epoca precedente.

   Pur parlandone qua e là,[xiv] Lenin non ha sviluppato questo aspetto: nel senso che non ha considerato come la maggiore socializzazione dei processi di lavoro e delle relazioni di capitale comportasse di per sé un potenziamento delle capacità produttive complessive. Anzi, la sua insistenza sull’imperialismo come “capitalismo parassitario e putrescente” lo ha portato a vedere la stessa trasformazione della macchina statale in modo assolutamente unilaterale, come semplice “Stato rentier” (Stato usuraio, Rentnerstaat), entro i cui confini, anziché innalzare la produttività del lavoro ed intensificare lo sfruttamento, la borghesia si limiterebbe a vivere “esportando capitali e tagliando cedole”. E succede pure che, laddove accenna alle dinamiche dello sviluppo produttivo, si preoccupi contemporaneamente di limitare la portata teorica delle sue stesse considerazioni:

 "Sarebbe erroneo credere che tale tendenza alla putrescenza escluda il rapido incremento del capitalismo: tutt’altro. Nell’età dell’imperialismo i singoli rami dell’industria, i singoli strati della borghesia, i singoli paesi palesano, con forza maggiore o minore, ora l’una ora l’altra di quelle tendenze. In complesso il capitalismo cresce assai più rapi- damente di prima, sennonché tale incremento non solo diviene in generale più sperequato, ma tale sperequazione si manifesta particolarmente nello imputridimento dei paesi capitalisticamente più forti (Inghilterra)".[xv]

    

  Del libro di Lenin è rimasto, così, soprattutto il giudizio senza appello sul capitalismo come putrescenza, come un moribondo che testardamente si rifiuta di morire:

 "Da tutto ciò che si è detto intorno all’essenza economica dell’imperialismo risulta che esso deve essere caratterizzato come capitalismo di transizione, o più esattamente come capitalismo morente".[xvi]

   

 Se la storia si fosse fermata all’ottobre del 1917, non avremmo avuto difficoltà a dargli ragione. La storia, però, è andata oltre quella data, e lungo tutto il secolo XX il capitalismo si è ingigantito a dismisura.

   Il fatto che più generazioni di comunisti e di rivoluzionari non abbiano colto fino in fondo questa semplice verità e siano rimasti sostanzialmente ancorati al secco giudizio di Lenin, si spiega certamente con la convinzione, e la speranza, che lo scontro decisivo tra proletariato e borghesia restasse sempre all’ordine del giorno e conservasse comunque il ruolo di architrave centrale della storia; ed è stato senz’altro vero che, in determinati momenti, la lotta di classe assumesse nel Novecento caratteri rivoluzionari, benché in nessun caso nella forma di “battaglia finale”.

   In breve, che il Novecento sia stato il secolo del grande scontro tra proletariato e borghesia è sicuramente vero; ma analogamente è vero che esso è stato anche il secolo della grande lotta del capitale con se stesso, il secolo del suo sforzo gigantesco di rinnovamento, del suo passare da un determinato stadio di esistenza a un’altra sua modalità di vita, molto più complessa ed evoluta. Questo secondo aspetto, nella concitazione effettiva dello scontro, stentava ad essere compreso.

   Oggi, quando tutto “consumatum est”, diviene certamente più facile cogliere i limiti della tradizione marxista del9 Novecento e ricostruire quello che, al di là della lotta di classe, avveniva nel mondo: appunto, questa gigantesca lotta del capitale con se stesso al fine di ridisegnarsi con nuove e più solide caratteristiche. In questa accezione, la fase dei monopoli si presenta come una realtà intermedia tra la libera concorrenza e quella che qui propongo come “totalizzazione del rapporto di capitale”: conserva aspetti della precedente dinamica e già acquisisce, in modo ancora immaturo, alcuni caratteri della nuova epoca. In questa identità sospesa, l’Età dei monopoli prepara, col suo sviluppo, il suo stesso superamento.

   Così il capitalismo di oggi conserva innegabilmente diverse somiglianze con l’epoca di Lenin, a cominciare dalla stessa vigenza giuridica delle condizioni di monopolio; ma le somiglianze non concernono la sostanza, che resta affatto diversa. Proprio a seguito delle dinamiche descritte da Lenin - e cioè con l’estensione all’universo-mondo delle regole, delle pratiche e dei valori del capitale -, si è innalzato enormemente il livello di socializzazione delle forze produttive. Il mondo costruito dai monopoli ha costituito, di fatto, la base per un ulteriore passaggio storico, quello che cercherò di analizzare col presente lavoro. In questa ricostruzione Lenin non potrà aiutare più di tanto. Egli ci descrive i caratteri dei monopoli, ma non prefigura ciò che essi stessi preparano. Da questo punto di vista, ed entro determinati limiti, risulta certamente più utile il vecchio Karl Marx.

 

NOTE


[i] La rivista era Officina. Presentatasi esplicitamente come “periodico marxista”, fu edita a Napoli dal giugno del 1987 al maggio del 1994. Usciva senza periodicità regolare, anche perché il collettivo redazionale svolgeva contemporaneamente un intenso impegno militante in diversi movimenti di lotta sociali e sindacali. La sua diffusione media era tra le millecinquecento e le duemila copie.

[ii] Dal 13 al 15 novembre 1959 in quella cittadina vicino Bonn la socialdemocrazia tedesca celebrò lo storico congresso che archiviò ufficialmente, assieme al vecchio programma di Heidelberg del 1925, anche la sua lunga tradizione come marxismo riformista.

[iii] Cfr. J. A. Hobson, L’imperialismo, Isedi, Milano 1974 (ed. orig. London 1902) e R. Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961 (ed. orig. Wien 1910).

[iv] Cfr. V. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in “Opere Scelte”, Editori Riuniti-Edizioni Progress, Roma 1975, vol. II, p. 451 e sgg. La citazione è a p. 484. Il libro fu scritto per la pubblicazione legale in Russia, e perciò con cautele argomentative e lessicali per sfuggire la censura. Recava come sottotitolo l’espressione “saggio popolare”, che non indicava solo la vocazione anti-accademica dell’autore, ma anche l’esigenza di una vera battaglia politica dietro le formulazioni teoriche e i dati dell’economia.

[v] Ibidem, p. 542.

[vi] La tesi della possibilità di un “ultraimperialismo”, come “fase dello sfruttamento collettivo del mondo ad opera del capitale internazionale coalizzato” era stata affacciata da Karl Kautsky in alcuni articoli su “Neue Zeit” tra il 1914 e il 1915. Sul numero dell’11 settembre 1914, il prestigioso esponente della socialdemocrazia tedesca scriveva: “Dal punto di vista stret tamente economico non può escludersi che il capitalismo attraverserà ancora una nuova fase: quella cioè dello spostamento della politica dei cartelli nella politica estera. Si avrebbe allora la fase dell’ultraimperialismo”. Lenin accusò Kautsky di rafforzare, con simili ragionamenti, gli “apologeti dell’imperia lismo” nelle file della Seconda Internazionale e le loro tesi sulla positività della finanziarizzazione dell’economia. I teorici della corrente di destra della socialdemocrazia tedesca, per tutti Heinrich Cunow, sostenevano, infatti, che proprio il crescere della integrazione tra banche e industrie avrebbe attutito le contraddizioni e le sperequazioni in seno all’economia mondiale, portando, di conseguenza, ad un mondo più ordinato e pacifico.

[vii] È degna di nota anche la periodizzazione che Lenin suggerisce: un primo sviluppo dei cartelli, non ancora generalizzati e stabilizzati, ci sarebbe già stato dopo la crisi del 1873; ma è solo dopo la crisi del 1900-1903 che essi sarebbero divenuti la vera base dell’economia. Ciò che costantemente Lenin si preoccupa di sottolineare è lo stretto legame tra l’ascesa dei monopoli e il manifestarsi sempre più esplicito dell’imperialismo politico.

[viii] V. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, op. cit., p. 494. Qualche pagina dopo, Lenin icasticamente chiosa: “Per il vecchio capitalismo, sotto il dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale.” Ovviamente, a Lenin non sfugge il fatto che “l’esportazione di capitale all’estero diventa un mezzo per favorire anche l’esportazione delle merci.” Ivi, p. 496 e p. 499.

[ix] “Al trapasso del capitalismo alla fase di capitalismo mono polistico finanziario è collegato un inasprimento della lotta per la ripartizione del mondo.” Ibidem, p. 509. Più oltre, a p. 524: “Il capitale finanziario e i trust acuiscono, non attenuano, le differenze nella rapidità di sviluppo dei diversi elementi dell’economia mondiale. Ma non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza?”

[x] Ibidem, p. 517.

[xi] ibidem, pp. 517 – 518.

[xii] ibidem, p. 505.  L’interesse di Lenin è tutto teso a seguire i risvolti politici di un tale intreccio, e cioè il militarismo e la tendenza imperialistica alla guerra. Passano così in secondo piano i fattori di potenziamento economico insiti in un più avanzato interagire delle diverse realtà produttive.

[xiii] Anzi, tendenzialmente Lenin tende ad escludere questo effetto di crescita delle capacità propriamente produttive, sia osservando che con i prezzi di monopolio verrebbero “paralizzati, fino ad un certo punto i moventi del progresso tecnico”, sia sostenendo che le innovazioni sarebbero comunque circondate da una “tendenza alla stagnazione e alla putrefazione, che è propria del monopolio”. Più in generale, egli sottolinea a più riprese che l’esportazione di capitale e il distacco dei rentiers dalla produzione darebbero “un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie d’oltre oceano”. In ibidem, p. 526 e p. 527.

[xiv] “Il monopolio, non appena creato, dispone di miliardi, pene tra necessariamente in tutti campi della vita pubblica, indipendentemente dalla costituzione politica del paese e da altri consimili particolari”. In ibidem, p. 493.

[xv] Ibidem, p. 546.

[xvi] ibidem, p. 548.


(Rino Malinconico, Teoria della Totalizzazione, Edizioni Melagrana 2012, vol. I, pp. )

 

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