Riportando in officina un libro bello e sbagliato
Si vuole che Newton concepisse la prima idea della gravitazione universale tenendo in mano una mela caduta dall’albero che gli dava refrigerio nella calura dell’estate. Non sappiamo se la mela l’avesse colpito, e ovviamente non siamo neppure certi della veridicità dell’episodio. Ma indipendentemente dal fatto che sia accaduto o no, esso ci consegna un ammaestramento notevole. Quel racconto propone infatti, in strettissima connessione, una teoria molto astratta (come è appunto quella di Newton, capace di raccogliere in un sistema di relazioni matematiche i movimenti effettivi dei pianeti) e la semplice osservazione empirica. L’indicazione è che esiste una forza intrinseca dell’osservazione immediata, tale da fissarla come reale punto di avvio dello stesso svolgimento concettuale.
Anche nel caso della Teoria della Totalizzazione, che si propone di descrivere entro un sistema di relazioni i
movimenti e le caratteristiche della società capitalistica contemporanea,
l’osservazione empirica è chiamata a svolgere il suo compito, delineando
immediatamente il punto che deve essere superato e indicando una possibile
direzione di marcia. L’osservazione empirica non può fare più di questo, ma che
lo faccia è decisivo.
Si
parva licet, a un piccolo gruppo di marxisti militanti (tra cui l’autore di
queste pagine), formatisi nel crogiuolo ribollente del Sessantotto, successe un po’ la
stessa cosa che accadde a Newton. Inciamparono, un bel giorno, in una
osservazione che solo apparentemente sembrava banale: il mondo capitalistico che avevano attorno sicuramente era strapieno di guerre, di miserie, di infelicità e di
orrori sparsi ai quattro angoli del globo; ma era anche, nello stesso tempo,
più ricco, più progredito, più denso, più capace, più vario e più informato di
quanto non lo fosse stato all’inizio del secolo. Lo testimoniavano le persone
anziane, i documentari televisivi, le ricerche storiche: si moriva meno per
malattia, la durata media della vita s’allungava, il benessere si diffondeva, i
progressi della tecnica non conoscevano limiti. Il più avanzato dei paesi
capitalistici arrivava persino a mettere un piede sulla luna…
Considerando senza pregiudizio
ciò che vedevano, questi giovani ribelli furono colpiti dall’improvvisa
certezza di aver lungamente convissuto con una teoria alquanto inadeguata a spiegare il mondo in cui vivevano; ed ebbero di fronte, con sorprendente evidenza, il
fatto che la realtà davvero non era come se l’erano figurata. Questa sorpresa e
questa scoperta avvennero all’incirca venticinque anni fa, alla metà degli anni
Ottanta. Di lì a poco, la caduta del muro di Berlino avrebbe segnato uno spartiacque
d’epoca e reso evidente a tutti che molte delle coordinate interpretative del
Novecento dovevano essere rivisitate.
Tutto avrebbe chiesto di essere ridiscusso,
e il dibattito si estese, sotto le picconate del 1989, alla durata
stessa del secolo XX. Ma un tale lavoro di ricostruzione teorica, sul punto
decisivo dell’analisi delle relazioni capitalistiche, per quel gruppo di
giovani era già in pieno svolgimento. In quegli anni apparve sulla loro piccola
rivista,[i] proprio con riferimento
alle nuove particolarità del rapporto di capitale, il neologismo “totalizzazione”.
In verità la parola era già adoperata in contesti squisitamente filosofici, ma, almeno nell’ambito della cultura marxiana, si presentava come vero e proprio
neologismo. E in ogni caso, nessuno aveva mai adoperata quella parola con
riferimento ai rapporti capitalistici di produzione.
Sto parlando, in buona sostanza, del
capitalismo contemporaneo, quello che già venti o venticinque anni fa si
presentava con le stesse caratteristiche di oggi. E la teoria che entrava in
crisi, nella quale s’erano formate ed erano cresciute intere generazioni di
militanti dall’Ottobre del
La visione novecentesca del capitalismo come
“putrescenza” è stata presente, senza differenze di rilievo, in tutte le
varie articolazioni dei rivoluzionari comunisti, indipendentemente dalla
profondità dei contrasti politici che li hanno divisi nel corso del secolo; e
non è stata diversa neppure nelle file più autentiche dei socialdemocratici
riformisti, almeno fino a Bad Godesberg.[ii] La convinzione comune era
che il capitalismo non possedesse più forza espansiva, che fosse privo di
capacità di presa sul mondo e non avesse alcuna effettiva possibilità di
controllo dei fattori economici e sociali.
Sicuramente il dubbio sulla plausibilità di
un tale giudizio sarà venuto anche ad altri militanti, in contemporanea o in
momenti diversi, un po’ prima o un po’ dopo i giovani della rivista Officina; e del travaglio di quel
piccolo gruppo di attivisti non metterebbe conto neppure parlarne, se quella
improvvisa scoperta non si fosse tradotta in una spinta a spiegare i motivi
stessi della contraddizione tra la propria teoria di riferimento e la realtà
che si aveva di fronte. C’erano almeno tre strade per farsene una ragione: dire
che il mondo aveva torto; dire che gli indicatori sullo stato di salute del
mondo erano inesatti; dire che la teoria era insufficiente. Le prime due strade
avevano come conseguenza un lavorìo di selezione, più o meno arbitraria, dei
dati e delle osservazioni, in direzione di ragionamenti finalizzati a far
combaciare comunque la teoria ereditata con quello che si vedeva empiricamente;
la terza comportava non solo il compito gravoso di correggere gli errori, e
perciò di mettere mano ad una nuova teoria, ma anche di spiegare perché nessuno
l’avesse fatto fino ad allora.
Con l’incoscienza tipica di una generazione
abbeveratasi all’iconoclastia del lungo Sessantotto italiano, Officina
scelse di percorrere la terza strada. Lo fece con molte approssimazioni, e con
incompiutezze ed incertezze di ogni tipo. Ma lo fece. O per lo meno, provò a
farlo, incamminandosi su sentieri davvero pochissimo battuti. Che quei
militanti non avessero soggezione neppure dei principali “testi sacri” del
movimento operaio, si spiega con la particolarità dei tempi; e che, di contro,
i teorici più noti e le riviste più consolidate continuassero a muoversi nello
stesso solco di sempre, pure si spiega con le caratteristiche dei tempi…
Quel gruppo esiguo di nuovi eretici
individuò con estrema nettezza il punto di “crisi teorica”, fissandolo nel
mancato sviluppo della critica dell’economia politica nel corso del Novecento;
al tempo stesso decise che occorreva mantenere comunque le acquisizioni del
marxismo almeno sulle immediate composizioni interne alla relazione di capitale; e
infine si convinse che era necessario prendere di petto la questione della
putrescenza del capitalismo e la connessa tesi dell’onnipotenza del capitale
finanziario. Il punto di partenza non poteva non essere il libro, bello e
sbagliato, che aveva formato tanta parte dei comunisti del Novecento: L’imperialismo fase suprema del capitalismo.
E così non potrà non essere anche per me, tanto più che qui ripiglierò,
ampliandola e sistematizzandola, proprio quella specifica elaborazione di
venti, venticinque anni or sono.
Nel suo famoso testo, redatto tra il gennaio
e il giugno del
Suggeriva inoltre che la condizione di monopolio e la finanziarizzazione dei rapporti capitalistici avrebbero prodotto una stagnazione non congiunturale ma strutturale. O meglio, l’economia avrebbe potuto anche crescere quantitativamente, ma si sarebbe trattato, in ogni caso, di una crescita fittizia, caratterizzata soprattutto dal consumo invece che dalla produzione. E per quanto concerneva la produzione, essa non avrebbe potuto altrimenti configurarsi che come pura lacerazione del tessuto produttivo preesistente. Una produione, in ultima analisi, di contrasti, guerre e distruzione:
In realtà, il lavoro di Lenin aveva due obiettivi politici precisi.
Anzitutto, era teso ad affermare
l’insopprimibilità dello squilibrio all’interno dello sviluppo capitalistico: i
monopoli e la finanziarizzazione dell’economia non avrebbero messo capo ad
alcun “super-imperialismo” razionalizzatore della società e del rapporto di
capitale.[vi] Anzi, i contrasti e le
contraddizioni si sarebbero vieppiù acuiti, e la guerra mondiale stava lì a
dimostrarlo in tutta la sua virulenza.
Il secondo obiettivo era di additare il
nazionalismo presente nella classe operaia e l’opportunismo presente nei
partiti socialisti come strettamente connessi alla dinamica economica e
soprattutto ai sovrapprofitti dell’imperialismo, e ciò in conseguenza della
loro parziale redistribuzione anche a favore di uno strato relativamente
ristretto di lavoratori, la cosiddetta “aristocrazia operaia”, vera propaggine
della borghesia nel seno stesso del proletariato. In sostanza, Lenin intendeva riconfermare la necessità della
lotta rivoluzionaria del proletariato e l’alternativa complessiva di società
rispetto al capitalismo.
In questa sede, tuttavia, interessa l’analisi economica in sé e per sé, così come emerge dal libro di Lenin. A mio avviso, quelle pagine appaiono convincenti e argomentate quando descrivono i monopoli e la presa che essi hanno sull’insieme della società.[vii] Meno persuasiva è la conclusione teorica, sviluppata in particolare nel capitolo VIII, che è significativamente intitolato “Parassitismo e putrefazione del capitalismo”. Se poi colleghiamo la descrizione alla conclusione, diventa chiaro che, per Lenin, la presa dei monopoli sulla società non comportava in alcun modo uno sviluppo delle forze produttive. Saremmo piuttosto in presenza di una mera attività di rapina. L’idea è che il monopolio, come produce una mancanza di stimoli all’innovazione tecnologica, così scoraggia un impiego produttivo anche per i capitali accumulati. Finanche la produzione di merci, sebbene continui a dominare e a essere considerata come base di tutta l’economia, sarebbe, in realtà, “già minata”. Così Lenin:
"In generale il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dall’impiego del medesimo nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale o produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall’imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all’impiego del capitale. L’imperialismo, vale a dire l’egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi. La prevalenza del capitale finanziario … comporta una posizione predominante del rentier e dell’oligarchia finanziaria".[viii]
In una siffatta condizione, la gran parte degli impieghi di capitale potrà solo trasferirsi sugli armamenti, sulle politiche di guerra e sulla disputa coloniale di un modo già spartito.[ix] Più in generale, poiché le cose sono considerate dal punto di vista del comando del monopolio, l’argomentazione non potrà che insistere sulla forza di trascinamento della rendita di posizione, cioè sui fattori che incoraggiano la staticità del capitalismo e la tendenza delle principali economie alla semplice rapina.
Indubbiamente il quadro disegnato dalle
pagine di Lenin coglie bene le dinamiche immediate
dell’imperialismo; tuttavia non tratteggia con la stessa efficacia i processi
di più lunga durata. È realistico ma poco veritiero.
Intanto, va sempre tenuto presente quello
che lo stesso Lenin ribadisce più volte, e cioè che non esiste il
“superimperialismo”, sicché ai monopoli si contrappongono altri monopoli e la
costruzione dei cartelli può avvenire solo in contrasto con altri simmetrici
cartelli. In secondo luogo, per il solo fatto che la figura predominante diventi adesso il rentier (vale a dire il "tagliatore di cedole", l'investitore che vive di semplici dividendi azionari e interessi bancari), non viene affatto meno la legge fondamentale del
sistema capitalistico, e cioè il ciclo D-M-D1, denaro-merce-denaro accresciuto. Né il fatto che in tutti i paesi più
avanzati le banche entrino a vario titolo nell’industria e costruiscano
capitali finanziari-industriali di proporzioni smisurate, modifica la natura
effettiva dei processi di produzione. Per il capitale il principio non cambia:
l’investimento deve essere remunerativo. Se la rapina remunera, la tentazione
per i capitalisti di trasformarsi in grassatori, e finanche in briganti di
strada, sicuramente s’accresce, tanto più se vivono concretamente fuori dai
circuiti della produzione, nei salotti dorati dei rentier. Ma la pura
rapina può essere remunerativa solo in un arco concentrato di tempo e dentro
circostanze specifiche irripetibili; e in ogni caso non potrebbe mai
soddisfare, da sola, l’esigenza di valorizzazione di tutta la massa dei
capitali accumulati. Questa richiede anzitutto impieghi “normali”, vale a dire
investimenti che scompongano il lavoro in "lavoro necessario" e "plus-lavoro", e
che, per tale via, valorizzino gli anticipi.
Segnalo, in sostanza, un andamento
contraddittorio nell’argomentazione puramente economica di Lenin. Da un lato, egli insiste sulla vigenza
della concorrenza anche nell’epoca dei monopoli e afferma con chiarezza che i
monopoli “non la eliminano”. Essi provengono, anzi, dal progredire stesso della
libera concorrenza, come risultato del processo di ampliamento continuo della
produzione e della concentrazione delle forze produttive che la stessa
concorrenza facilita; e con quella poi “coesistono, originando così una serie
di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti”.[x] Dall’altro lato, tuttavia,
Lenin sminuisce ciò che la concorrenza naturalmente porta con sé, ovvero
l’innovazione tecnologica e l’intensificazione generale dello sfruttamento del
lavoro immediatamente impiegato nei processi produttivi (la qual cosa rappresenta
ciò che, dal versante capitalistico, si qualifica normalmente come “sviluppo”).
Inoltre proclama i rentiers, e in
generale l’oligarchia finanziaria, come le figure predominanti in epoca
imperialista, ma contemporaneamente sottovaluta l’esigenza obiettiva dei
capitali di poggiare stabilmente sul valore d’uso della forza-lavoro e di dar
vita a un tessuto stabilizzato di investimenti produttivi di valore.
La guerra può rappresentare, come in effetti ha rappresentato, il punto di approdo di tutte queste spinte, tanto quelle che Lenin sottolinea di più, quanto quelle che sottolinea di meno. Questa la sua sintesi conclusiva:
E’ evidente che un siffatto mondo implica la tendenza crescente al militarismo e alle guerre. Ma ciò non toglie che il percorso verso la guerra e la guerra stessa concorrano di per sé alla crescita della potenza produttiva generale. Tale elemento manca nell’analisi di Lenin; o meglio, è un dato che non viene considerato con la necessaria attenzione. Egli sottolinea che i monopoli controllano la società, e che anzi il loro controllo arriva fino al punto che “i monopoli statali e privati s’intrecciano gli uni con gli altri”[xii], ma non individua il principale effetto di una tale situazione: ovvero, che nella connessione fra monopoli e società, la capacità produttiva sociale non potrà che crescere.[xiii] È questo il fatto strategicamente decisivo.
I monopoli, in altri termini, socializzano
la produzione dei fattori economici capitalistici ad un livello molto più
avanzato e diffuso di quanto non potesse avvenire nell’epoca della libera
concorrenza. Coi monopoli il grande pilastro della ricchezza continua ad essere
il lavoro attivato nel tempo di lavoro immediato; ma questo tempo di lavoro
immediato si attiva ora con un sistema complesso di combinazioni all’interno
dei settori produttivi, e anche nelle relazioni tra i diversi settori
produttivi. E tale caratteristica era del tutto ignota nell’epoca precedente.
Pur parlandone qua e là,[xiv] Lenin non ha sviluppato questo aspetto: nel senso
che non ha considerato come la maggiore socializzazione dei processi di lavoro
e delle relazioni di capitale comportasse di per sé un potenziamento delle
capacità produttive complessive. Anzi, la sua insistenza sull’imperialismo come
“capitalismo parassitario e putrescente” lo ha portato a vedere la stessa
trasformazione della macchina statale in modo assolutamente unilaterale, come
semplice “Stato rentier” (Stato usuraio, Rentnerstaat),
entro i cui confini, anziché innalzare la produttività del lavoro ed
intensificare lo sfruttamento, la borghesia si limiterebbe a vivere “esportando
capitali e tagliando cedole”. E succede pure che, laddove accenna alle
dinamiche dello sviluppo produttivo, si preoccupi contemporaneamente di
limitare la portata teorica delle sue stesse considerazioni:
Del libro di Lenin è rimasto, così, soprattutto il giudizio senza appello sul capitalismo come putrescenza, come un moribondo che testardamente si rifiuta di morire:
Se la storia si fosse fermata all’ottobre del 1917, non avremmo avuto difficoltà a dargli ragione. La storia, però, è andata oltre quella data, e lungo tutto il secolo XX il capitalismo si è ingigantito a dismisura.
Il fatto che più generazioni di comunisti e
di rivoluzionari non abbiano colto fino in fondo questa semplice verità e siano
rimasti sostanzialmente ancorati al secco giudizio di Lenin, si spiega certamente con la
convinzione, e la speranza, che lo scontro decisivo tra proletariato e
borghesia restasse sempre all’ordine del giorno e conservasse comunque il ruolo
di architrave centrale della storia; ed è stato senz’altro vero che, in determinati
momenti, la lotta di classe assumesse nel Novecento caratteri rivoluzionari,
benché in nessun caso nella forma di “battaglia finale”.
In breve, che il Novecento sia stato il
secolo del grande scontro tra proletariato e borghesia è sicuramente vero; ma
analogamente è vero che esso è stato anche il secolo della grande lotta del
capitale con se stesso, il secolo del suo sforzo gigantesco di rinnovamento,
del suo passare da un determinato stadio di esistenza a un’altra sua modalità
di vita, molto più complessa ed evoluta. Questo secondo aspetto, nella
concitazione effettiva dello scontro, stentava ad essere compreso.
Oggi, quando tutto “consumatum est”, diviene
certamente più facile cogliere i limiti della tradizione marxista del9 Novecento
e ricostruire quello che, al di là della lotta di classe, avveniva nel mondo:
appunto, questa gigantesca lotta del capitale con se stesso al fine di
ridisegnarsi con nuove e più solide caratteristiche. In questa accezione, la
fase dei monopoli si presenta come una realtà intermedia tra la libera
concorrenza e quella che qui propongo come “totalizzazione del rapporto di
capitale”: conserva aspetti della precedente dinamica e già acquisisce, in modo
ancora immaturo, alcuni caratteri della nuova epoca. In questa identità
sospesa, l’Età dei monopoli prepara, col suo sviluppo, il suo stesso
superamento.
Così il capitalismo di oggi conserva
innegabilmente diverse somiglianze con l’epoca di Lenin, a cominciare dalla stessa vigenza
giuridica delle condizioni di monopolio; ma le somiglianze non concernono la
sostanza, che resta affatto diversa. Proprio a seguito delle dinamiche
descritte da Lenin - e cioè con l’estensione all’universo-mondo delle regole,
delle pratiche e dei valori del capitale -, si è innalzato enormemente il
livello di socializzazione delle forze produttive. Il mondo costruito dai
monopoli ha costituito, di fatto, la base per un ulteriore passaggio storico,
quello che cercherò di analizzare col presente lavoro. In questa ricostruzione
Lenin non potrà aiutare più di tanto. Egli ci descrive i caratteri dei
monopoli, ma non prefigura ciò che essi stessi preparano. Da questo punto di
vista, ed entro determinati limiti, risulta certamente più utile il vecchio
Karl Marx.
[i]
La rivista era Officina. Presentatasi
esplicitamente come “periodico marxista”, fu edita a Napoli dal giugno del 1987
al maggio del 1994. Usciva senza periodicità regolare, anche perché il
collettivo redazionale svolgeva contemporaneamente un intenso impegno militante
in diversi movimenti di lotta sociali e sindacali. La sua diffusione media era
tra le millecinquecento e le duemila copie.
[ii]
Dal 13 al 15 novembre
[iii]
Cfr. J. A. Hobson, L’imperialismo, Isedi, Milano 1974 (ed. orig. London 1902) e R.
Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961 (ed. orig. Wien
1910).
[iv]
Cfr. V. Lenin, L’imperialismo,
fase suprema del capitalismo, in “Opere Scelte”, Editori Riuniti-Edizioni
Progress, Roma 1975, vol. II, p. 451 e sgg. La citazione è a p. 484. Il libro
fu scritto per la pubblicazione legale in Russia, e perciò con cautele
argomentative e lessicali per sfuggire la censura. Recava come sottotitolo l’espressione
“saggio popolare”, che non indicava solo la vocazione anti-accademica
dell’autore, ma anche l’esigenza di una vera battaglia politica dietro le
formulazioni teoriche e i dati dell’economia.
[v]
Ibidem, p. 542.
[vi]
La tesi della possibilità di un “ultraimperialismo”, come “fase dello
sfruttamento collettivo del mondo ad opera del capitale internazionale
coalizzato” era stata affacciata da Karl Kautsky in alcuni articoli su “Neue Zeit” tra il 1914
e il 1915. Sul numero dell’11 settembre 1914, il prestigioso esponente della
socialdemocrazia tedesca scriveva: “Dal punto di vista stret tamente economico
non può escludersi che il capitalismo attraverserà ancora una nuova fase:
quella cioè dello spostamento della politica dei cartelli nella politica
estera. Si avrebbe allora la fase dell’ultraimperialismo”. Lenin accusò Kautsky di rafforzare, con simili
ragionamenti, gli “apologeti dell’imperia lismo” nelle file della Seconda Internazionale
e le loro tesi sulla positività della finanziarizzazione dell’economia. I
teorici della corrente di destra della socialdemocrazia tedesca, per tutti
Heinrich Cunow, sostenevano, infatti, che proprio il crescere
della integrazione tra banche e industrie avrebbe attutito le contraddizioni e
le sperequazioni in seno all’economia mondiale, portando, di conseguenza, ad un
mondo più ordinato e pacifico.
[vii]
È degna di nota anche la periodizzazione che Lenin suggerisce: un primo sviluppo dei cartelli,
non ancora generalizzati e stabilizzati, ci sarebbe già stato dopo la crisi del
1873; ma è solo dopo la crisi del 1900-1903 che essi sarebbero divenuti la vera
base dell’economia. Ciò che costantemente Lenin si preoccupa di sottolineare è
lo stretto legame tra l’ascesa dei monopoli e il manifestarsi sempre più
esplicito dell’imperialismo politico.
[viii]
V. Lenin,
L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, op. cit., p. 494. Qualche
pagina dopo, Lenin icasticamente chiosa: “Per il vecchio capitalismo, sotto il
dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci;
per il più recente capitalismo sotto il dominio dei monopoli, è diventata
caratteristica l’esportazione di capitale.” Ovviamente, a Lenin non sfugge il
fatto che “l’esportazione di capitale all’estero diventa un mezzo per favorire
anche l’esportazione delle merci.” Ivi, p. 496 e p. 499.
[ix]
“Al trapasso del capitalismo alla fase di capitalismo mono polistico
finanziario è collegato un inasprimento della lotta per la ripartizione del
mondo.” Ibidem, p. 509. Più oltre, a p. 524: “Il capitale finanziario e i trust
acuiscono, non attenuano, le differenze nella rapidità di sviluppo dei diversi
elementi dell’economia mondiale. Ma non appena i rapporti di forza sono
modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i
contrasti se non con la forza?”
[x] Ibidem, p. 517.
[xi] ibidem, pp. 517 – 518.
[xii] ibidem, p. 505. L’interesse di Lenin è tutto teso a seguire i risvolti politici di
un tale intreccio, e cioè il militarismo e la tendenza imperialistica alla
guerra. Passano così in secondo piano i fattori di potenziamento economico
insiti in un più avanzato interagire delle diverse realtà produttive.
[xiii]
Anzi, tendenzialmente Lenin tende ad escludere questo effetto di crescita
delle capacità propriamente produttive, sia osservando che con i prezzi di
monopolio verrebbero “paralizzati, fino ad un certo punto i moventi del
progresso tecnico”, sia sostenendo che le innovazioni sarebbero comunque
circondate da una “tendenza alla stagnazione e alla putrefazione, che è propria
del monopolio”. Più in generale, egli sottolinea a più riprese che
l’esportazione di capitale e il distacco dei rentiers dalla produzione
darebbero “un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello
sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie d’oltre oceano”. In ibidem, p.
526 e p. 527.
[xiv]
“Il monopolio, non appena creato, dispone di miliardi, pene tra necessariamente
in tutti campi della vita pubblica, indipendentemente dalla costituzione
politica del paese e da altri consimili particolari”. In ibidem, p. 493.
[xv]
Ibidem, p. 546.
[xvi]
ibidem, p. 548.
(Rino Malinconico, Teoria della Totalizzazione, Edizioni Melagrana 2012, vol. I, pp. )
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