SUI COORDINAMENTI TERRITORIALI PER LA PACE E I DIRITTI
1) TRA LE OSSERVAZIONI PIÙ O MENO CRITICHE CHE MI SONO PERVENUTE a proposito di quanto ho scritto sulle elezioni europee, giudico particolarmente significative quelle avanzate da A. Pur riconoscendo che una rete agile e programmaticamente aperta di “Comitati territoriali per la Pace e i Diritti” avrebbe caratteri di inclusività - e soprattutto sarebbe più rispondente alle necessità dell'oggi tanto rispetto alla pura costruzione politico-organizzativa di Pace Terra Dignità quanto rispetto alle tentazioni inguaribilmente autocentrate delle formazioni della sinistra di alternativa (per le quali la risposta giusta al “che fare” è sempre quella di rafforzare se medesime) - A. sostiene che una tale rete diverebbe, quasi certamente, un ennesimo guscio vuoto. Riempito unicamente dai pochi attivisti radunatisi attorno a Pace Terra Dignità. Inoltre, seppure conceda che i coordinamenti territoriali che propongo io potrebbero avere un senso in territori carenti o addirittura privi di luoghi organizzati di impegno civile, teme fortemente che, senza neppure volerlo, essi porterebbero a un ulteriore aumento della frantumazione dell’attuale quadro di resistenza sociale e cultura critica, in particolare proprio nelle zone in cui già esista un più accentuato e diversificato fermento. E ciò anche perché i pochi movimenti di lotta attivi, le piccole associazioni di volontariato che operano 24 ore al giorno, i sindacati che vanno oltre il patronato e i partiti e i partitini di sinistra effettivamente impegnati nei singoli territori sul piano sociale e culturale appaiono tutti non solo sfibrati e stanchi, ma già in partenza profondamente segnati dalla loro problematica coesistenza sui temi, sulle proposte e sulle iniziative, vissute, di norma, in maniera poco collaborativa e spesso litigiosa.
2) IN SOSTANZA, L’IDEA DI A. È CHE SOPRATTUTTO DOVE GIÀ ESISTA UN LIVELLO ORGANIZZATIVO minimo sui temi della pace, dei diritti di cittadinanza e della lotta alle disuguaglianze, la questione andrebbe posta non nei termini di una nuova proposta organizzativa, ma nei termini di un rafforzamento culturale e ideale degli organismi già attivi. A partire, ovviamente, dalla mobilitazione sull’obiettivo urgente della pace. Così, invece di puntare a una nuova aggregazione, sia pure aperta a tutte e tutti e strutturata in forma di rete - che coinvolgerebbe per A. solo i pochi che formalmente vi aderirebbero, e che ancor meno aderirebbero realmente in modo operativo e fattivo -, occorrerebbe portare le analisi e le proposte sull'attuale passaggio storico direttamente all’interno degli spazi già organizzati. Insomma, non servirebbe tanto una nuova, specifica strutturazione a livello organizzativo, quantunque concepita nella forma non chiesastica dei coordinamenti territoriali aperti, bensì una messa a punto più organica ed efficace delle analisi politiche e culturali e delle proposte connesse a tali analisi, da veicolare con una sorta di “incursioni corsare” in tutti i luoghi dove sono presenti, con voce più o meno significativa, le persone disponibili a muoversi per la pace e per la difesa dei diritti di cittadinanza. Un tale lavoro si concretizzerebbe, perciò, in campagne specifiche sui temi, in specifiche pubblicazioni e in specifiche iniziative di formazione e riflessione. E, ovviamente, in specifiche mobilitazioni e iniziative di lotta.
3) DICO SUBITO CHE IO CONCORDO SULL’IMPORTANZA DEL LAVORO DI APPROFONDIMENTO, DIVULGAZIONE E FORMAZIONE: perché non si può realmente agire senza portarsi dietro analisi e proposte organiche (per quanto possibile); ovvero senza ciò che nella tradizione storica del movimento operaio veniva indicata come “teoria”. E questo è già un problema di prima grandezza, perché la spinta alla trasformazione sociale non può alimentarsi, oggi come oggi, semplicemente di parole antiche, non può rafforzarsi ripetendo pedissequamente le teorie rivoluzionarie del XIX e XX secolo. C'è bisogno, piuttosto, di una teoria nuova, che sia in effettiva sintonia col nostro tempo complicato. La costruzione di un saldo strumentario concettuale è perciò, anche per me, una questione assolutamente prioritaria. Che richiede un impegno severo e pressoché quotidiano; e che richiede soprattutto una grande disponibilità all’ascolto, al dialogo e alla problematizzazione delle questioni. Ma perché contrapporre l'impegno assolutamente necessario in tale direzione al lavoro, altrettanto necessario, e oggi urgente, per arrivare a un movimento generale incentrato sulla pace e sulla difesa dei diritti di cittadinanza umana? L’una cosa, a ben vedere, si rafforza necessariamente con l'altra; poiché, come la pratica sociale senza la teoria rischia di essere un cieco attivismo, così la teoria separata dalla pratica sociale rischia continuamente di divenire asfittica e di non produrre la spinta in avanti che le si chiede.
4) DEBBO ALTRESÌ DIRE CHE GIUDICO ASSAI FONDATE LE PREOCCUPAZIONI DI A. SULL'EFFETTIVA AMPIEZZA che riuscirebbero ad avere, nel futuro più immediato, i coordinamenti territoriali sulla pace e sui diritti. Pesa come un macigno soprattutto la scarsa condivisione – intendo “condivisione” in termini sostanziali e non formali – del fatto che siamo già all’interno di una guerra mondiale e in corsa accelerata verso il baratro. Chi mette al centro la dicotomia Pace/Guerra si scontra immediatamente con l’incredulità di fondo della stragrande maggioranza delle persone, anche delle persone schierate a sinistra. I sondaggi dicono che il “no alla guerra” è maggioritario in Italia; ma, in verità, pochi pensano che la questione ci riguardi direttamente e immediatamente. Inoltre, sul piano più strettamente operativo, concordo che c’è assai poco da aspettarsi anche dal piccolo milieu politico, sindacale e associativo della sinistra di alternativa, il quale ha sì prodotto iniziative in questi mesi sul tema della guerra, ma appare comunque grandemente disabituato a concentrarsi per davvero sul contesto che ha intorno. Al di là della esiguità delle forze, enormemente ridottesi anno dopo anno, il piccolo e variegato milieu che si dichiara in contrasto con le regole del capitalismo non si presenta affatto, oggi come oggi, come un insieme di persone che prevalentemente agiscono, quanto piuttosto come un insieme di persone che soprattutto parlano. E che parlano anzitutto di sé e su di sé. In sostanza: un insieme di persone che si muovono, all’interno della società e con riguardo alle dinamiche del conflitto sociale e ideale, con attitudini ben poco costruttive. Ci sono ovviamente rilevantissime eccezioni, in particolare nell’associazionismo del volontariato sociale e culturale; ma è straordinariamente prevalente la tendenza a perdersi, e a perdere tempo, in recriminazioni; come pure a impegnarsi nei selfie e nelle foto alle proprie bandiere per dimostrare la propria esistenza. Anche nella sinistra di alternativa prevale la logica dell’apparire, con la declamazione altisonante della sigla di appartenenza e con lo sventolio ossessivo delle proprie insegne, spia evidente di una cultura sempre più improduttivamente autocentrata.
5) MI PREME TUTTAVIA PRECISARE UN ASPETTO CHE FORSE, IN QUELLO CHE HO SCRITTO nell’ultima settimana, non è emerso come avrei voluto: seppure io ritenga ancora il piccolo milieu della sinistra di alternativa come il comparto, almeno potenzialmente, “più consapevole” della drammaticità dell’attuale fase storica, non circoscrivo affatto ad esso la proposta dei Coordinamenti territoriali per la Pace e i Diritti. E qui vorrei obiettare ad A. che quello che propongo non è neppure un percorso essenzialmente organizzativo. E meno che mai è un percorso organizzativo incentrato sugli attivisti della sinistra di alternativa o di Pace Terra Dignità. L’invito, invece, è a lavorare da subito, senza steccati, per dar vita a un movimento ampio per la pace e i diritti. È questa l’urgenza reale che abbiamo davanti. Ed è questa la prospettiva essenziale che, a mio avviso, ci dovremmo dare tutti e tutte: come singole persone, ma anche come strutture collettive, comprese quelle che comunque già vivono (o sopravvivono) in forma di comitati di impegno civile, di organizzazioni politiche, di soggetti sindacali e di associazioni di solidarietà. Aggiungo, inoltre, che darsi l’obiettivo di un movimento generale per la Pace e i diritti non comporta necessariamente - mi pare di cogliere questa preoccupazione nei rilievi di A. - un sovraccarico di impegno per quanti già quotidianamente sono iper-impegnati nelle lotte sociali o nelle buone pratiche di solidarietà. Anzi, la prima acquisizione teorica che occorrerebbe veicolare nelle strutture già attive è proprio la connessione stretta fra il contesto storico nel quale siamo inseriti e ciò che di buono esse già fanno intorno a un determinato ambito di questioni. In sostanza, ogni specifica azione di resistenza sociale, pur se circoscritta a specifici temi e a specifiche finalità, rinvia obiettivamente alle questioni più complessive che riguardano l'insieme della società; e rinvia, ovviamente, alla questione decisiva dell'attuale passaggio storico, che è per l'appunto “o pace o guerra”.
6) INSISTO: IO PROSPETTO LA COSTRUZIONE DI UN MOVIMENTO, NON DI UNA ORGANIZZAZIONE. E i coordinamenti territoriali di cui parlo li immagino esattamente come gruppi di lavoro in tale direzione. Con una particolarità: che, per avere un senso, dovrebbero muoversi fin dall'inizio oltre l'ambito di ciò che già si muove nei singoli territori. La qual cosa non significa soltanto, e neppure principalmente, sollecitare l’attivismo aggiuntivo di persone che normalmente non sono attive; significa invece collegare esplicitamente – e cioè sul piano tanto concettuale quanto propositivo e pratico - tutte le specifiche resistenze in corso col discorso complessivo della pace e dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità/sorellanza. In breve, i coordinamenti territoriali sono, dovrebbero essere, almeno per come li concepisco io, null'altro che spazi aperti, spontaneamente in rapporto non soltanto con gli spazi similari di altri territori ma anche con tutte le realtà positivamente attive che hanno attorno. Più in concreto, occorrerebbe avviare una dinamica non di tipo verticale, cioè dall'alto verso il basso, ma di tipo orizzontale, agilmente strutturata nei singoli territori con coordinamenti territoriali aperti e inclusivi: tanto più che ci sono "pacifisti" anche fuori dal milieu che si autopropone come "antagonista", come pure al di là di quanti si sono attivati attorno alla lista Pace Terra Dignità. Forse non sono linearmente conseguenti, ma guardano convintamente alla prospettiva della pace. E comunque sono persone che potremmo sensatamente indicare come “Partigiani della Costituzione”: perché si riconoscono nei principi basilari che questo governo tenta di cancellare. Per dirla in chiaro, mi riferisco non solamente a quella che chiamiamo “sinistra diffusa”, e cioè alle tante persone senza alcuna tessera di partito in tasca che simpatizzano normalmente per gli obiettivi e le pratiche finalizzate alla giustizia sociale; penso invece anche a determinate realtà che nel più recente passato si sono tenute distanti dagli obiettivi di giustizia sociale. Penso cioè, sul piano dei soggetti politici, a Verdi-Sinistra Italiana, ai 5Stelle, allo stesso Partito Democratico. Pure nelle loro file esistono energie che potrebbero contribuire a un movimento ampio, tendenzialmente maggioritario, in difesa della Pace e dei Diritti di cittadinanza umana.
7) D’ALTRO CANTO, PUNTARE ALLA EFFETTIVA COSTRUZIONE DI COORDINAMENTI TERRITORIALI, APERTI E INCLUSIVI, sui temi della Pace e dei Diritti, non vuol dire, per me, prospettare una dinamica che s’avvii a Roma tramite un accordo politico tra soggetti più o meno organizzati, e che poi si riproduca a cascata sui territori. Per una cosa del genere non ci sono né le forze, né le condizioni. E probabilmente neppure c’è la maturità politica necessaria. E probabilmente neppure sarebbe la via più produttiva. Se il punto è creare un movimento ampio all’interno della società, occorrerebbe confidare maggiormente su una dinamica “autorganizzata”, su una sorta di “fai da te” territorio per territorio. D’altronde, la campagna elettorale è servita, in parte, anche a questo: a costruire relazioni, a costruire rapporti e impegno condiviso con altri. E coloro che più si sono mossi sulla questione della Pace potrebbero ora fungere da apripista. Ritengo, insomma, che occorra puntare ancora sulla spontaneità della mobilitazione per la Pace. Che finora è stata visibilmente scarsa, ma che può verosimilmente crescere con l’incrudelirsi - purtroppo assai probabile – degli scenari di guerra. La mia idea, perciò, è di cominciare, per l'appunto, territorio per territorio. E senza alzare steccati. Proponendo incontri e percorsi di mobilitazione; e puntando a coinvolgere in partenza tutti coloro che è possibile coinvolgere. Occorre, cioè, che ciascuno e ciascuna propriamente “faccia”; e contribuisca, nei limiti delle proprie forze, a “costruire” in modo ampio e inclusivo. Non si tratta, voglio precisarlo ulteriormente, di puntare ad alzare l’ennesimo recinto in mezzo a tanti altri recinti. Dobbiamo invece operare per romperli, i recinti: perché siamo in una situazione davvero drammatica, con un'accelerazione molto probabile, da qui ai prossimi mesi, della tendenza, o meglio: non della “tendenza”, ma della realtà già drammaticamente in atto della guerra mondiale…
Rino Malinconico

Nel mio piccolo, desidero esprimere la mia piena condivisione delle valutazioni da te esternate. Soprattutto quelle del punto (3) - dove il dilemma se l'agire consista nel rafforzare prima le monadi, oppure dare priorità all'aggregazione in rete è fallace, poiché il nuovo paradigma della lotta consiste proprio nel superare tale dicotomia, fondendo etica ed estetica, forma e contenuto, nella supremazia della "relazione quantica" che determina l'indispensabile "ambiente bio-politico" (e quindi con un'accento speciale sul riequilibrio a favore della radicalità della forma più che del contenuto) che ne determina e sviluppa il suo funzionamento - e del punto (5) - dove l'interpretazione del nuovo paradigma necessario è ulteriormente esplicitata - sapendo e tenendo ben presente che viviamo indubbiamente una fase storica (gli ultimi 50 anni) di impoverimento complessivo e costante delle capacità e delle forze a livello politico, come descritto nel punto (4); e che quindi la risposta non può che essere quella di dare priorità alla fase della ricostruzione dal basso, dai circoli delle comunità e dei territori, per poi tessere un'articolazione eventualmente più ampia (regionale, nazionale e anche necessariamente continentale).
RispondiEliminaGrazie di questo tuo utile contributo
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