GEORGE BEST. PERCHÉ UN CALCIATORE DIVENTA MITO

  

Ha diversi pregi l’agevole testo di Ivano La Montagna su George Best, edito da Garrincha Edizioni. Uno è sicuramente la modalità di confronto con quel grande protagonista della storia del calcio, portato avanti non con la logica dei commentatori sportivi, interessati pressoché esclusivamente alle caratteristiche tecniche di un campione, ma sviluppato come ampia ricostruzione storico-culturale. Il lettore viene continuamente sollecitato a guardare all'insieme di quella specifica vicenda umana, in campo e fuori dal campo di gioco. Di più: viene sollecitato a tener sempre presente le molte sfaccettature degli anni ‘60 e ‘70, decenni particolarmente significativi non solo sul piano generale, ma proprio nella storia del Regno Unito e dell’Irlanda del Nord, poiché coincisero con una stagione molto cruenta della questione nord-irlandese. E Best era un irlandese di Belfast, seppure approdato a Manchester ancora ragazzo.


Aveva addosso la maglia rossa del Manchester United quando l’esercito inglese compì un autentico massacro di massa a Belfast – siamo nell’agosto del 1971 -, con 11 cadaveri nelle strade. E qualche mese dopo, alla fine del gennaio del 1972, altro sangue veniva versato a Derry (o Londonderry, come dicono gli inglesi), in quella che fu subito battezzata “domenica di sangue”. Il Primo Battaglione del Reggimento paracadutisti sparò con le mitragliatrici su un corteo disarmato, lasciando sul terreno 14 morti e 16 feriti. Quel corteo protestava contro la pratica diffusa dell'internamento dei cittadini sulla base del semplice sospetto di essere sostenitori dell’IRA, la formazione armata repubblicana che voleva l’unificazione dell'Ulster, cioè l'Irlanda del nord, alla Repubblica d'Irlanda.

L’EIRE, l’attuale Repubblica d’Irlanda, era nata formalmente solo negli anni Trenta dopo una lunga lotta di liberazione, cominciata con una rivolta generale alla fine del XVIII secolo e proseguita con sistematicità a partire dalla metà del XIX secolo. Ma i presupposti politici del distacco della maggioranza dell’Isola dal Regno Unito si determinarono unicamente dopo la rivolta della settimana di Pasqua del 1916  (che costò alcune centinaia di morti, tra caduti irlandesi e caduti inglesi; e voglio ricordare che alla fine gli inglesi misero a morte 16 irlandesi ritenuti tra i capi del movimento), e soprattutto dopo la cruenta guerra di liberazione divampata dal 1919 al 1921. Alla fine la maggioranza dell’Isola si liberava dalla tutela inglese; ma la gran parte dell’Ulster, il settore nord-orientale dell’Isola, a maggioranza protestante e con decisi sentimenti “unionisti”, rimaneva, e tuttora rimane, all’interno della Gran Bretagna, alimentando l’insistita ostilità della sua numerosa minoranza cattolica e la ripresa della guerriglia anti-unionista e anti-inglese fino agli anni Novanta del XX secolo.


La situazione nell’Irlanda del Nord fu feroce soprattutto negli anni Settanta, con l’esercito inglese che non faceva complimenti nel soffocare i conati indipendentisti, con l’IRA che rispondeva colpo su colpo, e con in più la spietata “guerriglia civile” tra le milizie armate protestanti e i combattenti cattolici. Resta nella memoria soprattutto la data del 27 agosto 1979, segnata dalla uccisione di Lord Mountbatten, cugino della Regina d’Inghilterra e figura prestigiosa della storia imperiale inglese, seguita, lo stesso giorno, da un micidiale scontro tra repubblicani e inglesi, che lasciò sul terreno 18 soldati di Sua Maestà Britannica. E resta ugualmente indelebile nella memoria il periodo tragico tra marzo e agosto 1981, con lo sciopero della fame a oltranza dei prigionieri irlandesi che reclamarono invano di essere considerati prigionieri politici e non criminali comuni. Quella protesta estrema si concluse con la morte di dieci di loro, a partire dal portavoce Bobby Sands, che si spense il 5 maggio.

Ebbene quando tutto questo avveniva, George Best non era già più la stella osannata del Manchester United che nel 1968, a 22 anni, aveva vinto contemporaneamente la Coppa dei Campioni in Europa e il Pallone d’oro assegnato dalla rivista France Football al miglior giocatore. Lasciata Manchester nel 1974, giocava in squadre assai meno blasonate, dal Sudafrica agli USA, con puntate in Inghilterra e in Irlanda. E il George Best che correva sui campi di gioco non faceva più notizia. Era diventato, come scrive Ivano La Montagna, “più stella dei rotocalchi e della pubblicità piuttosto che del calcio giocato”. Eppure George Best, giocatore in sfacelo, continuava ad essere, nell’immaginario collettivo, ancora George Best.


Del resto, come puntualizzano acutamente le pagine più intriganti del lavoro di Ivano, quelle dedicata alla Iconologia del mito, Best rimane una presenza costante anche nei murales che si susseguono oggi sui muri di Belfast. Si pone tuttora come punto di riferimento dell’identità nordirlandese. E non a caso nel 2006, a un anno appena dalla morte, l'aeroporto di Belfast città veniva intitolato, caso più unico che raro, proprio al calciatore. Questa singolare tendenza all’eternità, La Montagna la spiega soprattutto col sottrarsi alle convulsioni cruente della sua terra, nel senso che “il ruolo da lui stesso rivendicato, ossia quello del calciatore-artista contrario ed estraneo ai settarismi”, lo avrebbe caratterizzato come emblematico “portatore di pace e bellezza” (pp. 90–91). E c’è sicuramente un elemento di verità in questa convinzione di La Montagna, e cioè nel fatto che l’affetto generalizzato per George Best potrebbe avere molto a che vedere, nel contesto così lacerato dell’Irlanda del nord, con l’atteggiamento dichiaratamente im-politico del calciatore, e anzi fermamente estraneo alla politica. In effetti, Best sottolineò sempre la sua distanza dalle questioni che infiammavano l’Ulster. Ci teneva a essere considerato un semplice “calciatore”. E in aggiunta rivendicava, fuori dal campo, di essere un uomo innamorato in senso ampio della vita: persino con atteggiamenti che facevano storcere il naso ai benpensanti. La sua esistenza, come è noto, si articolò piuttosto vorticosamente tra donne, alcol e auto veloci. E la rivendicazione orgogliosa dello sperpero del proprio patrimonio, e di se stesso, poteva facilmente essere vista, soprattutto da coloro che lo osannavano sul campo di calcio, alla stregua di uno straniante, e però molto opportuno  “scarto di lato” rispetto agli odi che insanguinavano la sua terra.


In sostanza, andrebbe evidenziato un nesso piuttosto stringente tra l’attaccamento degli irlandesi per il campione e il suo vitalismo estetizzante. Peraltro, egli fu una figura molto connotata esteticamente tanto sul campo di calcio quanto nella vita privata. Ed era questo, dice La Montagna, a renderlo caro al grande pubblico. Di più: col suo sbandierato sottrarsi al quadro d’insieme delle lacerazioni nordirlandesi e col preziosismo dei suoi dribbling e dei suoi goal, egli additava una “possibilità altra” rispetto alla guerra che travolgeva tanti suoi coetanei a Belfast e a Derry. Non si schierava, ma si metteva su un piano diverso, divenendo immediatamente oggetto d’invidia e d’ammirazione. Ammirazione dall’una e dall’altra parte, è bene precisarlo. Best era Best tanto tra gli irlandesi protestanti quanto tra gli irlandesi cattolici. Non stupisce, perciò, che il suo stesso funerale sia poi divenuto un evento memorabile, con diverse centinaia di migliaia di partecipanti.


Non va taciuta, tuttavia, l’esistenza, e la persistenza, di un sordo malumore per la sua posizione “agnostica”, specie fra quanti restavano saldamente inquadrati nelle logiche guerriere. La Montagna racconta un episodio significativo al riguardo, accaduto nel 2010, cinque anni dopo la morte di Best. Quell’anno, per celebrare il cinquantenario del suo debutto nel Manchester United, la Municipalità di Belfast finanziò un murales all'interno di un più complessivo progetto culturale sul valore della Pace. Il nuovo murales sostituiva, in una zona vicina all'aeroporto che porta il suo nome, un precedente murales voluto e ideato dalla organizzazione paramilitare lealista UVF (Ulster Volunteer Force), e Best vi era ritratto in corsa con la maglia verde della nazionale nordirlandese e con a lato lo stemma della nazionale e lo stemma del Manchester United. Pochissimo tempo dopo, però, l’UVF si ripigliò sbrigativamente lo spazio, cancellando del tutto la pacifica immagine di Best e mettendo al suo posto un incappucciato in tuta mimetica e un fucile mitragliatore…  


In ogni caso, al fine di dare pienamente conto dell’amore viscerale per Best da parte dell’insieme della popolazione nordirlandese, io aggiungerei un ulteriore tassello alle osservazioni di La Montagna. In estrema sintesi: certamente si è guardato a lui con un forte sentimento di vicinanza non solo per la sua abilità col pallone ma anche perché era palesemente non-schierato con nessuna delle parti in conflitto, e perciò simboleggiava obiettivamente un diverso spazio di esistenza e un'altra possibilità di vita in quello specifico contesto storico e geografico; ma a farlo diventare vero e proprio mito, penso siano state soprattutto le ragioni di ordine generale che portano alla creazione dei miti. Anzi, leggendo il libro di La Montagna mi è venuto da pensare che questo straordinario calciatore irlandese costituisca un bell'esempio dei processi di mitizzazione, almeno per ho provato a definirli in un recente libro, edito da Melagrana nel 2021, che si intitola, per l’appunto, Le forme del mito.

In quelle pagine ho provato a dire che il mito – che non va confuso con i tòpoi, i luoghi argomentativi, o con i cliché, o coi simboli (benché tranquillamente nei propri discorsi proceda proprio per ‘tipicità’, per ‘cliché e per ‘simboli’) -  si presenta sotto tre fattispecie distinte tra loro. E cioè; come una eterotopìa; come un ‘di più’, un doppio distorcente del reale; e infine come un evento spasmodicamente atteso. Sono tre tipologie distinte, ma il contenuto che le attraversa vive nella medesima forma, e cioè in quanto ‘mito’: che diventa appunto tale nel cervello - meglio ancora: nello animus - di gruppi determinati di persone.


Non posso ovviamente dilungarmi su queste definizioni. Mi limito perciò a dire che pereterotopìa” intendo la costruzione, nell’immaginario delle persone e con riferimento al senso comune generale, di un locus mirabilis, di una realtà diversa dal reale nel quale siamo concretamente immersi: un vero e proprio ‘luogo di meraviglie’, non fantastico ma favoloso in senso proprio. Si tratta, naturalmente, di un territorio mentale, che ha la medesima consistenza dei sogni; tuttavia – è questo il punto decisivo - la nostra convinzione, più o meno latente, è che potremmo davvero imbatterci nelle figure che lo popolano, svoltando appena l’angolo di strada.

A sua volta il mito come ‘di più’, come “duplicazione distorcente” dell’elemento da cui parte, e che pure continuerà ad alimentarlo e a sorreggerlo, è un processo di costruzione intellettuale diverso dalla eterotopìa per un aspetto basilare: esso non fuoriesce mai completamente dai luoghi, dalle figure e dalle vicende del reale, bensì le trasfigura, lavorandole con modalità in parte immaginifica e in parte ideologica, e perciò snaturandole rispetto alla loro effettiva contestualizzazione e verità storica. In sostanza, le ri-compone come ‘verità emotivamente vissute’, duplicando l’effettivo dato storico o narrativo, e aggiungendovi la ‘verità desiderata’ e la ‘memoria delle verità mitiche’ che ad essa preesistono. Così, mentre la “eterotopìa” è una ‘realtà’ completamente ‘altra’, il “doppio distorcente” è una alterazione produttiva del reale, la sua traslazione de-storicizzata sul piano delle situazioni e delle figure eterne, o che comunque presumono di poter vivere in eterno.

E infine, quando faccio riferimento al meccanismo dell’evento spasmodicamente atteso, o anche a una nuova situazione storica intensamente desiderata, la sottolineatura è tutta sull’attesa o sul desiderio e non sull’evento o sulla novità storica, che potranno tanto risultare effettivamente possibili quanto impossibili. Il punto focale sta, infatti, nella dinamica intellettuale con la quale si attende o si desidera: se con la razionalità più o meno efficace dell’analisi, oppure col sentimento lancinante del desiderio, come intima voglia di congiunzione tra quello che c’è ora e quello che ci sarà o potrebbe esserci in futuro. In sottofondo agiscono la insoddisfazione per l’io concretamente auto-definito nel presente e la speranza di un io plasmato, e quasi rigenerato, dall’evento atteso.


A maggior intelligenza di quanto detto, si pensi alla percezione europea delle ‘Americhe’ nel XVI secolo, oppure alla costruzione dell’immagine del ‘cavaliere’ nel Basso Medioevo, o ancora alla presenza del ‘miracolo’ in tutta la lunga età pre-moderna: l’America cantata e sognata dal Cinquecento al Novecento inoltrato, il cavaliere osannato nel Medioevo e fino e oltre l’Età Moderna, e il paradigma del ‘miracolo atteso dall’antichità ai secoli della Modernità sono tre oggetti esemplari che afferiscono, rispettivamente, al mito come ‘eterotopìa’, al mito come ‘doppio distorcente’ e al mito come ‘evento atteso’.


Orbene, tornando a Best, a me pare che attorno alla sua figura si delineino chiari processi di mitizzazione in tutte e tre le direzioni che ho appena indicato. 

Intanto Best esemplifica il calcio, e il calcio si presenta, nel nostro tempo, proprio come uno straordinario locus mirabilis. I rapporti sul campo sono diversi, più belli e più vitali, dalle relazioni concrete che ciascuno di noi vive. E la presenza pervasiva del giuoco, del pallone, delle squadre, dei campioni e dei campionati nel nostro tempo testimonia esattamente, a ben vedere, l’insistita pratica di eterotopia che coinvolge larghi settori della popolazione pressoché in tutti i Paesi del mondo. Testimonia, cioè, la voglia spasmodica di un altrove diverso dagli spazi che normalmente attraversiamo. E questo altrove si fissa nell'animo nostro più stabilmente proprio se è accompagnato dalla figura di uno o più campioni particolarmente amati. È il caso di Best per gli irlandesi, di Maradona per gli argentini e i napoletani, di Pelé per i brasiliani, di tutti i grandi campioni; che, a questo punto, è davvero riduttivo circoscrivere al semplice contenuto sportivo, perché hanno in effetti un contenuto eminentemente sociale: appunto come costruzione collettiva del mito, e, attraverso il mito, come autocostruzione del sé individuale.

Ma Best, non solo perché campione sul campo da gioco ma anche perché protagonista di una vita, per così dire, ‘esagerata’, si pone, di fatto, anche come un esemplare “doppio distorcente" della realtà in cui effettivamente siamo. La duplica e la distorce con varia forza a seconda della fascia di età: maggiormente magari quando si è ragazzi o si è giovani e si spera di diventare campioni come lui; ma io penso che questa presenza tenda a continuare anche dopo, anche quando l'età non c'è più. Allora ce la caveremo dicendo a noi stessi, un po’ scherzando e un po’ credendoci, che se avessimo voluto, forse avremmo potuto far quasi come lui. Faremmo cioè lavorare il doppio distorcente sul passato che non abbiamo avuto ma che avremmo voluto (e forse potuto) avere. Se non sul campo da gioco, almeno nella vita privata. 

E infine Best può porsi anche come attesa spasmodica dell'evento: per esempio come propiziatore, coi suoi goal, di un giorno di gloria e di festa, di un giorno di baldoria. E cioè di uno spazio cronologico che sospenda il corso normale delle cose e apra, seppure in un tempo circoscritto, a un vivere totalmente diverso e che vale la pena di desiderare. Per l’appunto: una vita da protagonista sia in campo che fuori dal campo.


Ecco: io penso un giocatore come George Best esemplifichi in maniera evidente proprio le dinamiche di mitizzazione. Intanto per la bellezza del gioco, ma anche perché ha aggiunto al gioco una vita sopra le righe, e cioè propriamente estetica, lasciandosi alle spalle i dettami dell’etica e del senso di responsabilità. Lasciandosi alle spalle anche la pesantezza della storia e le sofferenze assurde della sua terra. Questo suo diventare mito ha dunque varie e corpose ragioni, E però tutte queste ragioni, ovviamente, riguardano lui solo di sfuggita, poiché, come è facile capire, il mito vive veramente solo dentro di noi. È una nostra creazione anche quando lo facciamo muovere, immaginificamente, con un nome e un cognome reale.


Rino Malinconico


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