Dalla Potestas alla Potentia. Il lascito fondamentale del Sessantotto
La nuova società e la nuova umanità
Gli ultimi decenni del Novecento e i
primi decenni dell’attuale secolo hanno dovuto fare i conti (e quasi mai ci
sono riusciti, e spesso neppure hanno capito che proprio quei conti dovevano
fare) con la consumazione delle vicende rivoluzionarie del “secolo breve” e con
la crisi obiettiva della teoria - un marxismo largamente inteso in senso
positivista - che le aveva lungamente accompagnate. Occorreva prendere di
petto, e tuttora occorrerebbe farlo, una spinosissima questione di fondo:
ovvero, il dato inoppugnabile che la “nuova società” non aveva generato alcuna
“nuova umanità”. Anzi, le gerarchie si erano incessantemente riprodotte anche
all'interno dei Paesi che si dichiaravano non-capitalisti e si presentavano
all'esterno come sistemi socialisti.
Questa evidente difficoltà è stata
lungamente spiegata col fatto che c'erano “i due tempi”: il tempo del
socialismo come “emancipazione sociale” (a ciascuno secondo il suo lavoro); e
il tempo del comunismo come “liberazione umana” (a ciascuno secondo i suoi
bisogni). Ma era chiaro (per chi volesse vedere), e oggi lo è ancora di più,
che si trattava di una soluzione non solo debole sul piano della struttura
argomentativa, ma anche continuamente smentita dall'insieme delle vicende
storiche; e questo già prima del collasso dell’URSS e dell’attuale slancio
dell’economia (capitalistica) cinese.
C’era stato, ovviamente, più di un
tentativo, lungo l'arco del XX secolo, di mettere assieme “nuova società” e
“nuova umanità”. Con tutte le sue contraddizioni, i suoi limiti, i suoi
velleitarismi, e diversi suoi passaggi francamente inaccettabili, soprattutto
la Rivoluzione culturale cinese cercò di andare in quella direzione. Si
proponeva di “cambiare il mondo soggettivo”, di “toccare l'uomo nel più
profondo dell'animo”, come recitava il primo dei famosi 16 punti approvati dal
Comitato Centrale del Partito comunista l'8 agosto del 1966. Nel triennio
straordinariamente ricco e straordinariamente tormentato vissuto dalla Cina tra
il 1966 e il 1969, si affacciò, sia pure caoticamente, l’idea che, quasi
quarant’anni dopo, sarà al centro della innovazione sudamericana dei concetti
di socialismo e di rivoluzione.
Mi riferisco al fatto che, durante la
rivoluzione culturale, la “presa del potere” consisteva essenzialmente nella
distruzione dei "quattro vecchi":
vecchi pensieri, vecchia cultura, vecchie consuetudini, vecchie abitudini.
L’esortazione di Mao alle guardie rosse fu di "imparare a fare la
rivoluzione, facendola". La qual cosa significava essenzialmente che il
potere da conquistare stava già tutto dentro l’agire rivoluzionario diretto e
nella sua “presa di parola”. Prendere il potere nelle fabbriche, nelle comuni
agricole e nelle università significava perciò convincere, dare corpo ad una pratica continua di “azioni e
discussioni”, con l’obiettivo di trasformare se stessi assieme al mondo
esterno; e farlo, appunto, con le armi della parola, con le armi della
discussione critica e auto-critica.
Si trattò di un processo gigantesco e
contraddittorio, con molti elementi impropri e distorcenti, che daranno luogo a
tantissimi fraintendimenti, anche autorevoli (Eric Hobsbawm, ad esempio, nella
sua ampia ricostruzione del XX secolo, l’ha addirittura ignorata la Rivoluzione
culturale, limitandosi alla astiosa definizione di “bizzarro cataclisma”
inserito in “venti anni di maoismo, nei quali si combinarono la disumanità e
l’oscurantismo di massa con le assurdità surrealiste”)[i]; ma
il Sessantotto europeo riprese largamente proprio quelle spinte, proprio ciò
che agli occhi del grande storico inglese sembravano null’altro che “assurdità
surrealiste”.
È sorprendente che nelle ricorrenti ricostruzioni
del Sessantotto - così abbondanti in Italia e così intense nei vari ventennali,
trentennali, quarantennali e, da ultimo, cinquantenario - sia stato
regolarmente messo in ombra proprio il rapporto con la Rivoluzione culturale. È
sorprendente perché nella coscienza di coloro che vissero quella stagione di
lotte e di speranze come una vera scelta di vita, era proprio il Vento
dell'est, per dirla col famoso film militante coordinato da Jean-Luc
Godard, a soffiare fortissimo. Nei cortei e nelle assemblee si proclamava, in
maniera persino ossessiva, che si dovesse fare, ”qui e subito”, come in Cina.
Non stupisce, perciò – ce lo ricorda
una significativa scena del capolavoro di Elio Petri Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto -, che “Viva Mao” fosse, in quegli
anni, la scritta murale di gran lunga più diffusa nelle città grandi e piccole
d’Italia, Francia, Germania.[ii] Il
fatto è che i settori più consapevoli del Sessantotto europeo, trent'anni prima
del 'movimento dei movimenti' che s’avviò poi a Seattle nel 1999, seppero leggere
- almeno parzialmente - l’imponente novità che disordinatamente veniva
dall’Oriente, con quel singolare slittamento culturale e semantico dalla potestas alla potentia.
Potestas e
Potentia
Potestas e potentia: i due lemmi hanno la stessa origine, vengono entrambi dal
verbo possum, dal suo participio aggettivato potens, ovvero “capace
di”, “idoneo a” “che può fare”. Entrambi richiamano, perciò, l’elemento
della “forza”. Ma mentre potestas
attiene alla strutturazione delle regole sociali, comporta l’imperium, il comando, il classico
‘potere’ dall'alto verso il basso, potentia
concerne soprattutto il potere come verbo, il poter-fare, il potere di
trasformare, creare, costruire. Gli scrittori latini utilizzavano potentia
nel senso di ‘azione’, ‘capacità’, ‘efficacia’, persino come sinonimo di
‘virtù’. In tal modo, se potestas è
connessa alla istituzionalizzazione delle relazioni sociali (che appunto
vengono anche dette in linguaggio marxiano, e non solo marxiano, “relazioni di
potere”), la potentia ci riporta all'azione trasformatrice.
Nel Novecento tutte le rivoluzioni,
quelle anticoloniali non meno di quelle “per il socialismo”, hanno avuto come
obiettivo la potestas. Nessuna si è configurata come esplicitazione in sé della
potentia. Il convincimento era, anzi, che la potentia si completava esattamente
col raggiungimento della potestas. Il Novecento non aveva l'idea - l’ha avuta
parzialmente solamente nella Rivoluzione culturale cinese e nel Sessantotto
occidentale - che la questione davvero decisiva non fosse quella di definire
gli assetti, bensì di mettersi in cammino.
D'altra parte, il concetto di potentia
si presta a letture diversificate ancor più di potestas. Io, ad esempio,
non lo assumo alla maniera dell’operaismo italiano, che lo ha circoscritto nei
termini piuttosto tradizionali della “potenza rivoluzionaria”: in quanto
espressione della soggettività dell'operaio-massa, e più tardi come il modo di
essere, spontaneo e naturale, delle moltitudini. In tale quadro, l’effetto che
la potentia tenderebbe a produrre è null’altro che l’attiva reazione delle
classi subalterne all’ordine capitalistico; il quale, a sua volta, è
continuamente costretto a ridisegnare se stesso e l’insieme sociale sotto la
pressione della insorgenza proletaria. La tesi, insomma, è sempre quella
originaria di Mario Tronti. Pur prendendo le distanze dal Lenin presuntamente
‘iperpolitico’ della iconografia ufficiale della Terza Internazionale, egli
poneva nei seguenti termini il rapporto tra gli operai e il Capitale:
Abbiamo visto anche noi prima
lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre
rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: il
principio è la lotta di classe della classe operaia.[iii]
L’idea è che il capitalismo,
nonostante appaia il contrario, si muova sempre sotto l’influenza delle masse
subalterne. Agirebbe unicamente per rispondere alla loro pressione sociale,
alle loro lotte e alla loro soggettività politica. E tale idea è poi trasmigrata
linearmente nella scrittura negriana all’avvio del XXI secolo, con la
globalizzazione imperiale che, da un lato, “sovrasta chiaramente la moltitudine
e la assoggetta al comando della sua macchina pachidermica, un nuovo
Leviathan”; dall'altra parte, considerata “da quella che abbiamo definito
prospettiva ontologica, la gerarchia appare rovesciata. La moltitudine è la
reale forza produttiva del nostro mondo, mentre l'Impero è un mero apparato di
cattura che si alimenta della vitalità della moltitudine”. È puro “lavoro morto
accumulato… che sopravvive soltanto succhiando il sangue dei viventi”.[iv]
L’immagine vampiresca del Capitale è
di Marx, che la utilizzava per sottolineare l’obiettivo incombere, nella
dinamica produttiva capitalistica, del ‘lavoro morto’ (i macchinari e il denaro
investito) sul ‘lavoro vivo’ (le braccia dell’operaio e il suo impego oltre il
valore per cui è stato “comprato” dal capitalista). Non aveva alcuna pretesa di
definire il movimento storico complessivo del capitalismo: era solo un modo
efficace per ribadire il concetto di sfruttamento, l’appropriazione
capitalistica del pluslavoro operaio. Negri e Hardt, invece, ripropongono
l’espressione all’interno del discorso, che qualificano “ontologico”, sulla
globalizzazione dei rapporti capitalistici; il che li porta, a mio parere, a una idea riduttiva non solo del capitalismo ma anche della rivoluzione.
I nodi problematici dell’operaismo
All’avvio del ventunesimo secolo, ed
in presenza del tumultuoso “movimento dei movimenti” che si scagliava con forza
contro l'ordine costituito, non era per nulla facile, come non lo è tuttora,
proiettarsi oltre l’idea di rivoluzione costruita maggioritariamente nel
Novecento. In ogni caso, le nuove teorizzazioni provenienti dal filone
operaista ci sono riuscite solo in minima parte. Il tentativo si è fermato, per
lo più, al semplice spostamento dei termini rispetto alla versione scientista
del marxismo, che vedeva solo lo sviluppo capitalistico fungere da soggetto
positivo dei processi storici. Tronti e poi Negri, assumendo comunque il nodo
del dominio e delle forme del dominio come decisivo, hanno sostituito
l’insorgenza spontanea operaia, e più tardi la pratica spiazzante dell’“esodo”
delle moltitudini, alla soggettività positiva dello sviluppo capitalistico,
pensando in tal modo di averla cancellata.
Sono evidenti le assonanze delle loro
tesi con la “scuola della regolazione” francese: in particolare, per la
centralità assegnata al conflitto redistributivo nella determinazione dei
vincoli istituzionali che, per l’appunto, regolerebbero l’accumulazione
capitalistica; come pure per l’insistenza sulla “società salariale” in quanto
snodo critico della dinamica del capitalismo occidentale.[v] Ma i
contenuti davvero problematici vanno al di là della trasformazione concettuale
del lavoratore salariato in una specie di ‘forza progressiva’ che costringe il
capitalismo a rigenerarsi. Ravviso, infatti, due formidabili insufficienze
nella architettura concettuale degli operaisti.
La prima insufficienza è che tendono a
gettar via il bambino con l’acqua sporca a proposito del capitalismo. Per
affermare l’attualità della rivoluzione e criticare, giustamente, la linea
‘oggettivistica’ delle crisi capitalistiche come mera conseguenza dello
sviluppo economico, anche i più tardi epigoni dell’operaismo ripropongono, sia
pure in forme diverse, l’identico convincimento che ha segnato, a partire da
Lenin e dal dibattito sull’imperialismo d’inizio secolo, l’intero movimento
comunista del Novecento: e cioè la visione del capitalismo come mera
“putrescenza”. Non lo considerano nella sua effettività di forza
concretamente storica e perennemente in azione, proiettata senza sosta a
modellare e rimodellare il mondo; ma lo vedono come un sistema sociale
organicamente chiuso, come una struttura ferma su se stessa e unicamente
interessata alla sua sopravvivenza, appunto, di “sistema”.
In tal modo, anche tra coloro che
correttamente provano a parlare del capitalismo come una entità più grande del
denaro - per cui il denaro, anche nella forma di “capitale”, diviene solo un
elemento in esso contenuto -, la tendenza prevalente è di ritenerlo, comunque,
un fatto e non un atto, una struttura economico-sociale e
non una dinamica veramente storica. Si ritorna, perciò, all'immagine
fissa del capitalismo: come un qualcosa di perennemente immobile, capace solo
di immettersi in un movimento sempre uguale, anno dopo anno e ciclo dopo ciclo.
Il punto è che
non basta affermare che le relazioni capitalistiche sono sempre caratterizzate
da sfruttamento e oppressione (e per gli operaisti la caratterizzazione
principale è l’oppressione); non basta, perché il capitalismo non vive
unicamente nelle dinamiche economiche e politiche. In pari tempo, e anzi soprattutto,
esso tende ad essere l’“insieme”, socialmente strutturato, della vita reale. Si
presenta come l’assetto complessivo del mondo moderno, come l’anima
indispensabile dell’intera società.
Di più: il
capitalismo lo rinveniamo tangibilmente proprio negli individui concreti e nei
loro concreti rapporti sia sociali che privati. È in continua attività dentro
di noi: nel senso che incessantemente, e con straordinario successo, introduce la società capitalisticamente strutturata nella coscienza medesima di ogni
persona, indipendentemente dalla sua collocazione nella scala sociale.
Ancora sui
nodi problematici dell’operaismo
Quando il
rapporto sociale di capitale viene visto come una semplice “modalità di
funzionamento” dell’attività (costrittiva) di lavoro - o di “non funzionamento”
o di “mal funzionamento -, e non lo si considera invece nel suo dato essenziale
di presenza viva nel vivere concreto degli individui, la conseguenza, pressoché
inevitabile, sarà proprio di sottovalutare il problema cruciale della
rivoluzione anticapitalista: e cioè il fatto che sono gli stessi proletari che debbono
trasformarsi nel processo rivoluzionario. Ed è questa, la seconda e più grave
insufficienza delle tesi operaiste e tardo-operaiste.
Nei testi dell’autonomia operaia
italiana degli anni ‘70, come pure negli scritti più recenti di Negri, la
soggettività antagonista è ruvidamente chiamata a una pratica di affermazione,
non di autocostruzione. Non si fa entrare in crisi l'identità proletaria, o
moltitudinaria che dir si voglia, poiché la si presume in partenza libera dalle
tare del capitalismo. Anzi, per chi è convinto che il capitalismo non sia altro
che una “funzione” della classe lavoratrice, l'affermazione che la rivoluzione
debba essere anche, e in ultima analisi soprattutto, una “lotta contro noi
stessi” (e non semplicemente una lotta contro il nemico esterno), apparirà
sostanzialmente incomprensibile.
È davvero stupefacente la coerenza
della scuola operaista sul punto decisivo della soggettività proletaria come
realtà primigenia e priva di sostanziali smagliature. Cambiano i contesti,
finanche i riferimenti sociali, e cambiano gli obiettivi. Ma la dinamica della
rivoluzione è sempre la stessa. L’ultimo Negri, ad esempio, è passato (con
ragione) dalla parola d’ordine “più salario” degli anni ’70 alla rivendicazione
della “insolvenza” (non pagare il debito internazionale, strappare reddito di
cittadinanza), in quanto forma visibile di negazione rivoluzionaria della
misura del valore; analogamente è passato dai contropoteri diffusi della
stagione post-Sessantotto alle pratiche destituenti dal basso delle forme del
comando in quanto tale; ed è soprattutto arrivato a rivendicare l’“accesso al
comune”, vale a dire ai beni comuni e alle pratiche governamentali, come leva
per costruire nuove istituzioni “in libertà e nel rispetto della solidarietà”.
Con qualche riserva, si potrebbe
essere d’accordo. Senonché egli riconduce quell’insieme di rivendicazioni (in
gran parte adeguate alla fase politica) direttamente alla soggettività
immediata dei proletari; i quali, a questo punto, avrebbero solo il problema di
mettersi più efficacemente assieme per portarle ad autentica pienezza storica:
“Il cammino è quello di affermare il diritto di ‘accesso al comune’, di
realizzare quel desiderio di comune che ormai abita nel cuore dei lavoratori”.[vi]
Così la potentia diventa un “poter
fare” rivolto linearmente all'esterno; non c’è alcuna necessità di indirizzarla
anche all’autocostruzione dell'essere umano, a ciò che sta al fondo, e per
certi versi al di sopra, di ogni società storicamente determinata.
Non mi sfugge, ovviamente, che la
direzione di marcia che qui sto indicando, che allude alla “nuova umanità” come
effettivo prius logico (non storico), comporta problemi non meno rilevanti, e
persino più spinosi, di quelli manifestatisi nell’orizzonte della rivoluzione
tutta politica e sociale. Per dirne uno: l’essere umano “che si rinnova” è qualcosa già in nuce nelle dinamiche storiche o dovrà essere una invenzione ex novo?
Da questo punto di vista l'aiuto ci
viene, forse, da un altro lavorio degli anni ‘ 60 e ’70 del XX secolo: quello
che si è ricollegato al grande ‘marxismo eretico’ del Novecento, in particolare
a Ernst Bloch e Herbert Marcuse,[vii] e che
ha cercato di riflettere su cosa potesse davvero significare “costruire il
socialismo”. Mi riferisco, in breve, alla connessione di utopia concreta e
rivoluzione antropologica, che costituisce, a mio avviso, un ulteriore e straordinariamente significativo
lascito del Sessantotto.
“Sognare in avanti”, suggeriva Bloch.
Ovvero, muoversi già in partenza in una sfera di “speranza” e “azione
partecipativa”: che è qualcosa di più forte, di più importante della logica
della pura politica e della “costruzione istituzionale”; proprio perché è solo
il cammino concreto, esperito in prima persona, quello che potrà rinnovare gli
esseri umani “nel profondo dell’animo”.
Durante il maggio francese del 1968,
un graffito sui muri dell'Università di Nanterre annunciava, in un modo che a
me pare estremamente efficace, il vero elemento di novità (accanto ai tanti
elementi di continuità) di quella temperie storica. La scritta recitava: Ce n’est pas une révolution, Sire, c’est une
mutation. Una mutazione, non una rivoluzione.
Solo che “mutazione” è molto più di
“rivoluzione”. Non ci si propone di cambiare le cose che sono, ma di far
nascere ex novo altre cose, altre
prospettive.
Il
Sessantotto e l’accentuazione umanistica della Rivoluzione
In
effetti, nei 10, 12 anni che vengono comunemente raggruppati con l'indicazione
sintetica di “millenovecentosessantotto”, prese forma una declinazione
profondamente innovativa dell'idea di rivoluzione, che spiazzò completamente le
culture e le organizzazioni consolidate del movimento operaio. I marxisti
formatisi nei decenni precedenti ebbero difficoltà a comprenderla, e per lo più
ne diffidarono. E incomprensioni e fraintendimenti abbondarono anche fra gli
intellettuali che più simpatizzarono col movimento studentesco e che venivano
considerati dai giovani ribelli delle università come interlocutori e utili
riferimenti teorici. Emblematico, a tal proposito, mi pare il caso di Herbert
Marcuse, una delle tre emme che la pubblicistica ha posto, con qualche
ragione, al vertice del Pantheon di
riferimento culturale del Sessantotto: Marx, Mao, Marcuse.
Indubbiamente
l'elaborazione marcusiana ebbe un ruolo importante nella cultura complessiva
del movimento; e però quella nuova generazione di rivoluzionari andò
visibilmente al di là delle sue teorizzazioni. Per dirla in una battuta, gli
studenti che occupavano le facoltà, affollavano le assemblee e sfilavano per le
strade cittadine apprezzarono soprattutto il Marcuse di Eros e civiltà,
un suo fondamentale testo del 1955, piuttosto che il Marcuse de L’uomo a una
dimensione, il conosciutissimo suo libro del 1964. Le tesi sviluppate da Eros
e civiltà erano non solo affini allo spirito di libertà che animava il
movimento, all'intreccio di liberazione individuale e liberazione collettiva
che sostanziava le sue parole d'ordine e la sua pratica politica, ma
trasmettevano anche una ragionevole fiducia sulle potenzialità di liberazione
del mondo moderno. Era soprattutto questo che le rendeva care allo spirito
ottimistico di quei giovani ribelli. Viceversa, L'uomo a una dimensione
delineava uno scenario più cupo e sembrava quasi dire a chi lottava di non
illudersi più di tanto sui risultati che si potevano conseguire. Aveva, agli
occhi di chi avidamente lo sfogliava nei seminari e nei gruppi di studio, il
sapore inaccettabile del pessimismo e, per i più critici, perfino un sapore di rinuncia.[viii]
In
verità, l'insistenza di Marcuse sulle dinamiche disgregatrici delle istanze
emancipative e sulla particolare consistenza sociale dell'alienazione
nell’epoca del tardo-capitalismo voleva essere soprattutto una messa in guardia
analitica e, parallelamente, una raccomandazione per i ribelli delle cittadelle
capitalistiche. L’invito era a non sopravvalutare il portato delle loro lotte e
a guardare soprattutto al di là dei confini del mondo ricco, in particolare
alle insorgenze dei popoli del Terzo Mondo. Ma, nonostante le apparenze, si
trattava di un ragionamento meno capace di entrare in risonanza con la cultura
del Sessantotto. Da un lato, infatti, gli studenti d'Europa e degli Stati Uniti
si alimentavano spontaneamente delle suggestioni che venivano dalla Rivoluzione culturale cinese, dalla resistenza vietnamita e dall'insieme delle
lotte di liberazione dei paesi colonizzati, e addirittura concepivano con
troppa linearità le linee di connessione tra quelle insorgenze e la loro lotta
nel cuore del capitalismo; dall’altro lato, essi dichiaravano sempre più
esplicitamente l’importanza, in sé, della contestazione di massa della società
opulenta e del movimento antiautoritario, che tendevano a leggere come concrete
dinamiche di contrasto all’insieme delle alienazioni generate dal sistema
capitalistico.
Così,
mentre Marcuse insisteva a dire, proprio nel maggio dell’anno 1968 e proprio a
Parigi, che la rivoluzione non era affatto all’ordine del giorno nei Paesi a
capitalismo avanzato, una impressionante moltitudine di giovani scendeva nelle
strade del Quartiere Latino scandendo graffianti e inequivoci slogan: «Sous les
pavés, la plage» (Sotto i sampietrini c'è la spiaggia), «Il est interdit
d'interdire» (Vietato vietare), «Jouissez sans entraves» (Godetevela senza
freni), «Cours camarade, le vieux monde est derrière toi» (Corri compagno, il
vecchio mondo ti sta dietro), «La vie est ailleurs» (La vita è altrove), e così
via. Per il grande filosofo, il tardo-capitalismo aveva mutato profondamente i
termini della lotta di classe. Per dirla con le sue parole: “Il concetto
marxiano di rivoluzione - in quanto effettuata dalla maggioranza delle masse
sfruttate e culminante nella presa del potere, nella instaurazione di una
dittatura proletaria, che prende le misure iniziale per la socializzazione - è
superato dallo sviluppo storico. Appartiene a uno stadio sorpassato della
produttività e dell'organizzazione capitalistica, non riflette lo stadio
superiore della produttività capitalista, ivi compresa la produttività della
distruzione, la spaventosa concentrazione di strumenti di annientamento e di
mutilazione nelle mani del potere esistente”.
Era un
giudizio senz’altro condivisibile, che il movimento studentesco del Sessantotto
avrebbe linearmente sottoscritto. Poi, però, Marcuse aggiungeva:
Nelle
metropoli capitalistiche soprasviluppate, la potenziale forza alternativa
appare oggi rappresentata solo dai gruppi “marginali” sopra ricordati:
l'opposizione tra gli intellettuali, soprattutto tra gli studenti, e i gruppi
politicamente articolati e attivi della popolazione dei ghetti. Entrambi, non
solo respingono il sistema nella sua totalità, e ogni trasformazione del
sistema nel quadro delle strutture esistenti, ma esprimono anche la loro
adesione a un sistema di valori e di aspirazioni nuovo e qualitativamente
diverso. La debolezza di questi gruppi, e la loro marginalità, esprime bene la
nuova situazione storica che definisce il nuovo concetto di rivoluzione: 1)
contro la maggioranza della popolazione integrata, ivi compresa quella dei
“produttori immediati”; 2) contro una società efficiente prospera, che non si
trova né in una situazione prerivoluzionaria, né in una situazione
rivoluzionaria. In conseguenza di tale situazione, la funzione di questa
opposizione è di carattere strettamente preliminare.[ix]
In
sostanza, per Marcuse gli studenti facevano bene a mantenere l'obiettivo
radicale della totale trasformazione dei valori e la pressione per un mutamento
generale dei bisogni e dei fini, delineando una rivoluzione
concettualmente sottratta al tema della produttività (tema caro non solo
alla sociologia capitalistica ma anche al marxismo di intonazione positivistica
dei Paesi del “socialismo reale”); e però dovevano concepire questo loro agire
soprattutto in quanto chiarificazione positiva della teoria e della pratica
nell'età del tardo-capitalismo e come sviluppo e formazione di quadri e di
nuclei utili al cambiamento. Cambiamento che, nel mondo ricco, sarebbe venuto
solo per l’effetto congiunto delle insorgenze del Terzo Mondo (che avrebbero
comportato costi crescenti delle guerre neocoloniali e l’intensificarsi della
concorrenza) e delle contraddizioni
tipiche del sistema, a partire dalla caduta del tasso del profitto conseguente alla crescente riduzione della forza-lavoro umana nel processo
produttivo.
I
giovani ribelli del Sessantotto non respingevano i ragionamenti che Marcuse,
come altri, suggeriva, ma richiamavano l'attenzione sul fatto che proprio
perché la rivoluzione nel tardo-capitalismo doveva necessariamente connettere
la liberazione degli individui e la emancipazione delle classi sfruttate e dei
Paesi poveri del mondo, non aveva più senso la distinzione tra spinta
soggettiva al cambiamento e condizioni oggettive della trasformazione storica.
Anzi, se proprio si volesse mettere a fuoco un elenco di priorità, per i
giovani ribelli al primo posto avrebbe dovuto esserci senza dubbio la pressione
per una nuova umanità. Prima ancora della spinta rivoluzionaria verso una nuova
società.
In
sostanza, nella logica sessantottina, il comunismo cessava di essere una tema
soprattutto economico, sociologico e politologico, e ridiveniva ciò che era
stato all’inizio: una questione fondamentalmente filosofica.
Vincent
Cespedes, un eclettico filosofo e scrittore francese, che per ragioni
anagrafiche ha potuto conoscere il Sessantotto solo dal racconto dei genitori,
così lo ha descritto:
Nel
maggio-giugno 1968, la filosofia è in strada. Rivoluzione attraverso la
filosofia, ma anche rivoluzione della filosofia ... I "figli della
borghesia" non "giocavano ai proletari" (formula ben nota
all'anti-maggio), bensì lo filosofeggiavano. Milioni di persone hanno smesso di
essere ossessionate dalla pianificazione della propria carriera o della loro
vita privata e hanno continuato a filosofare insieme. È l'evento centrale del Maggio,
quello che articola tutti gli altri e li rende possibili. Sotto la disparità di
lotte specifiche, la loro unità.[x]
In
realtà non fu solo il Maggio francese a formulare una nuova definizione della
libertà e della socialità umana, applicando la logica della trasformazione in
senso umanistico ai tracciati non solo sociali, ma anche esistenziali degli
esseri umani. Non si doveva più scindere la lotta per il diritto al pane da
quella per il diritto alle rose. E analogamente non si doveva più separare la
emancipazione delle persone associate dalla liberazione degli individui
specifici. La tensione alla rivoluzione antropologica prima ancora che politica
e sociale percorse così, in lungo e in largo, da un capo all’altro del globo
quella nuova ondata di lotte. Non ne negava i contenuti specifici ma li
ricomprendeva tutti in un unico “assalto al cielo”.
Ad essere precisi, non si trattava di novità in senso assoluto. Diversi marxisti rivoluzionari avevano già sottolineato l’assoluta centralità dell’essere umano rinnovato nello scontro col capitalismo e il suo sistema globale di sfruttamento e oppressione. E già s’erano affacciati processi rivoluzionari che si proponevano di mettere assieme fin dall’inizio la nuova società e la nuova umanità. Il Maggio, tuttavia, rilanciò con particolare forza quella esigenza e la tradusse in molteplici pratiche di autorganizzazione e non solo di contrapposizione. Non c’è perciò da stupirsi se quella particolare declinazione della rivoluzione sopravviverà allo stesso Sessantotto in esperienze ancora attive all’avvio del XXI secolo. E vive, a ben vedere, ancora oggi, seppure in mezzo a difficoltà gogantesche.
Rino
Malinconico
NOTE
[i]
Cfr. E. J. Hobsbawm, Il Secolo breve, 1914-1991. L'era dei grandi cataclismi,
traduzione di B. Lotti, Rizzoli, Milano 2018, p. 524 e p. 546.
[ii]
Così il rapporto
del brigadiere al nuovo capo dell'Ufficio politico della questura (Gian Maria
Volonté), a proposito delle scritte politiche sui muri: «L'anno scorso i Viva
Mao arrivarono a tremila. Ho Chi Minh arrivò a diecimila. Che Guevara mille.
Marcuse undici: Viva e Abbasso. (...) Per l’anno in corso, si prevedono
diecimila evviva Mao, cinquecento Viva Trotzkij e una decina di Viva Amendola.
E forse ancora un cinque-seicento Viva Stalin».
[iii]
L’affermazione è contenuta nel breve saggio “Lenin in Inghilterra”, uscito nel
gennaio 1964 sul primo numero del mensile “Classe Operaia”, fondato da Alberto
Asor Rosa, Massimo Cacciari e, appunto, Mario Tronti. Si veda anche M.
Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966; seconda edizione
accresciuta 1971.
[iv]
Cfr. M. Hardt, A Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione,
Rizzoli, Milano 2002, p. 72.
[v] Cfr. M. Aglietta, Régulation
et crises du capitalisme - l’expérience des Etats-Unis, éd. Calman
Levy. Paris 1976 e R. Boyer, Y. Saillard, Théorie de la régulation. L'état
des savoirs, La Découverte, Paris 2002.
[vi] Cfr. T. Negri e altri, Dalla
rivoluzione alla democrazia del comune. Lavoro singolarità desiderio.
Cronopio, Napoli 2015, p. 25.
[vii]
Sul “marxismo eretico”, cfr. R. Malinconico, L’eresia dell’Occidente,
Ediz. Melagrana, S. Felice a C. 2003.
[viii]
Lo stesso Marcuse era consapevole dello spostamento di accento tra i due libri.
Nella “prefazione politica” che scrisse nel 1966 per una nuova edizione di Eros
e civiltà ammetteva, riferendosi all'edizione del 1955: “Allora avevo
trascurato o minimizzato il fatto che questi motivi ormai in via di estinzione [la penuria e la necessità del
lavoro, come forme di ricatto del sistema sulle persone, nda] sono stati notevolmente
rinforzati (se non sostituiti) da forme ancora più efficaci di controllo
sociale … Nella società opulenta, le autorità non hanno quasi più bisogno di
giustificare il dominio che esercitano”. Di fatto, proprio “la portata e
l'efficacia dell' introiezione democratica hanno soppresso il protagonismo
storico della rivoluzione: gli uomini liberi non hanno bisogno di essere
liberati, e gli oppressi non sono forti abbastanza per liberarsi”. Si
dichiarava, inoltre, fiducioso sulla durata delle lotte giovanili, e però
ricollocandole all’interno del quadro filosofico e psicoanalitico della contrapposizione
tra Eros e Thanatos: “Sono le loro vite che sono in gioco, e se non le loro
vite certo la loro salute mentale e la loro possibilità di essere completamente
uomini. La loro protesta continuerà, perché è una necessità biologica”. Cfr. H.
Marcuse, H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1967, pp. 33 –
34, p. 37 e p. 45.
[ix]
Cfr. H. Marcuse, Un riesame del
concetto di rivoluzione, in AA. VV. Marx vivo, Mondadori, Milano
1969, p. 143. È l’intervento che Marcuse tenne al Convegno “Il ruolo di Karl
Marx nello sviluppo del pensiero scientifico contemporaneo”, organizzato dal
Consiglio internazionale per la filosofia e le scienze umane a Parigi nel
maggio del 1968, col patrocinio dell'Unesco, in occasione dei 150 anni dalla
nascita del filosofo e rivoluzionario tedesco.
[x]
Cfr. V. Cespedes, Mai 68, La philosophie est dans la rue!, Larousse,
Paris 2008.
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