L'EUROPA DEL RISENTIMENTO
A proposito dei giorni cruciali
che stiamo vivendo
di Rino Malinconico
Sul piano specificamente
politico-culturale si metteva in luce una disarmonia di fondo, e di più antica
data, tra la posizione dell'Europa continentale e la posizione del mondo
anglosassone, che l’invasione dell’Iraq aveva in qualche modo svelato. La tesi
che ne derivava era che si dovesse risolutamente archiviare il ruolo di guida
morale e culturale, e non solo politico-economica, assunto nella seconda metà
del XX secolo dagli USA, in special relazionship col Regno
Unito. Non reggeva più l’idea che si trattasse di Paesi (e popoli)
“naturalmente vocati” alla libertà.
Ma l'affermazione più
interessante di quelle pagine, a rileggerle oggi, concerne la descrizione della
“identità europea”, considerata una realtà piuttosto evidente dai due autori,
che la fissano in sette precise caratteristiche: 1) la secolarizzazione,
ovvero “la privatizzazione sociale della fede”, nel senso che “dalle nostre
parti è difficilmente immaginabile un presidente che dà inizio alla sua
attività quotidiana con una pubblica preghiera e che collega le sue decisioni
politiche a una missione divina” e ciò ha conseguenze assolutamente positive
per la cultura politica; 2) il primato dello Stato sul mercato, nel
senso che un tratto comune ai cittadini europei è di aver una “fiducia
relativamente ampia nelle prestazioni organizzative e nelle capacità di governo
dello Stato, mentre sono scettici circa la capacità di prestazioni del
mercato”; 3) la solidarietà prima dell'efficienza, con una chiara
preferenza per le “garanzie di sicurezza dello Stato del benessere e per le
norme solidaristiche” 4) lo scetticismo verso la tecnica, al punto
che si potrebbe parlare di una mentalità europea caratterizzata da una
“spiccata tendenza alla «dialettica dell'Illuminismo»”; 5) la
consapevolezza dei paradossi del progresso, tanto che “nei confronti dei
progressi tecnici non si nutrono speranze eccessivamente ottimistiche”;
6) il ripudio del diritto del più forte, resa evidente dal fatto
che “la soglia di tolleranza verso l'uso della violenza contro le persone è
relativamente bassa”; 7) il pacifismo in base all'esperienza storica
delle perdite, che si concretezza in un diffuso “desiderio di un ordine
internazionale multilaterale e regolato giuridicamentex … nel quadro di un'ONU
riformata.”
La conclusione del
ragionamento è scopertamente ottimista sul ruolo pacifico che l’Europa
continentale potrebbe e dovrebbe giocare sia rispetto al proprio destino e sia
rispetto ai destini del mondo. In direzione della cooperazione sovranazionale
la indirizzerebbero, pressoché spontaneamente, le stesse sofferenze e orrori
che hanno costellato la sua storia. E spingerebbe in tale direzione finanche il
gravoso fardello del passato coloniale nei rapporti tra l'Europa e gli altri
continenti:
"Ogni grande nazione europea ha vissuto un periodo di fioritura delle ambizioni imperiali e, ciò che nel nostro contesto è ancora più importante, ha dovuto assimilare l'esperienza della perdita di un impero. Questa esperienza del declino è legata in molti casi alla perdita di imperi coloniali. Col crescente distacco dal dominio imperiale e dalla storia coloniale, le potenze europee hanno anche avuto l'occasione di porsi a una distanza riflessiva da se stesse. Hanno così potuto imparare a percepire se stesse, dall'angolo visuale dei vinti, nel dubbio ruolo dei vincitori che vengono chiamati a render conto della violenza di una modernizzazione e uno sradicamento imposti dall'alto. Ciò potrebbe aver favorito l'abbandono dell'eurocentrismo e aver dato le ali alla speranza kantiana di una politica interna mondiale". (Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso, Laterza, Bari 2007, pp. 29 – 30).
2) Stiamo parlando,
ovviamente, di uno scritto datato, che la storia, a distanza di vent'anni, ha chiaramente
smentito e che già allora presentava vistosi limiti interpretativi. Per dirne
uno, l’Europa continentale di cui parla non è quella geografica dall’Atlantico
agli Urali, bensì semplicemente l’Europa Occidentale, ovvero l’Occidente
atlantico senza gli USA e la Gran Bretagna (col suo corredo di Canada e
Australia); e per dirne un altro, dà per avvenuto il superamento delle
“relazioni imperiali” e non solo coloniali, per cui non contempla neppure alla
lontana la categoria di “neoimperialismo”; e infine, per dirne un terzo, sembra
quasi che il vulnus delle regole internazionali nasca proprio con l’invasione
dell’Iraq, quando invece, per restare cronologicamente nei paraggi, il 2003 era
già stato preceduto dai bombardamenti di Belgrado del 1999 e dalla invasione
dell’Afghanistan nel 2001.
L'ho riproposto tuttavia al
lettore, in quanto utile avvio del ragionamento. Esso, infatti, è visibilmente
costruito - questo il mio secco giudizio - su taluni vistosi fraintendimenti delle effettive
caratteristiche storiche dell'Europa. Sono fraintendimenti rimasti platealmente
inalterati nel dibattito pubblico. Anzi, proprio gli ultimissimi, inattesi
sviluppi della “guerra mondiale a pezzi” stanno rilanciando, seppure non con la
profondità e l'eloquenza dei due grandi filosofi, l'idea che esista davvero, in
parte sul piano effettivo e in parte come potenzialità, il “primato culturale e
morale” dell'Europa continentale; il quale potrebbe addirittura trasformarsi in
primato politico-militare, se solo i governanti e i popoli Io volessero per
davvero…
In sostanza, io penso che
la questione teoreticamente e politicamente più urgente sia proprio “l’Europa”.
Essa è l’autentico sconosciuto dei discorsi sulla guerra e sulla pace. E il
paradosso è che si tratta di un oggetto sconosciuto anche in riferimento agli
stessi avvenimenti europei. Per dirla in modo più chiaro, io ritengo che si sia
davvero esagerato, ed esagerato da più parti, nell’interpretare la guerra in
Ucraina come un conflitto che contrappone essenzialmente gli Stati Uniti e la
Russia. Non che questo elemento non ci sia stato e non abbia tuttora il suo
peso; ma la sua accentuazione ha messo in secondo piano, e ha inopinatamente
velato, la dimensione fondamentalmente europea della guerra.
Ha pesato, in questa
torsione, la convinzione - diffusa pressoché in tutti gli ambienti culturali e
in tutte le aree politiche - che esistesse per davvero un Occidente
indifferenziato, un omogeneo tutt’uno tra le due sponde
dell’Atlantico, con alla testa, per gli esiti obiettivi della Seconda guerra
mondiale, gli Stati Uniti d'America, da alcuni sbrigativamente considerato un
ingombrante e fastidioso padre-padrone, e da altri visto, con maggiore realismo,
alla stregua di un necessario primus inter pares. Di fatto,
neppure i conoscitori più esperti di vicende europee hanno colto, nella sua
interezza, il ruolo giocato progressivamente – e con vari gradi di
consapevolezza - dai Paesi europei nella vicenda ucraina. E hanno
simmetricamente messo in ombra come anche per la Russia la questione centrale,
ancor prima degli equilibri mondiali, fosse proprio l'assetto europeo.
3) Orbene, se provassimo ora a riconsiderare l’intera questione ucraina partendo dal contesto europeo - proprio per come esso si è man mano sviluppato dopo la conclusione della Guerra Fredda -, probabilmente riusciremmo a vedere più cose di quelle che abbiamo visto finora. Intanto diverrebbe subito più chiaro il punto di vista russo. Qual era, infatti, l’inquietudine di Mosca? La risposta che ci siamo razionalmente dati – o almeno, che si sono date le persone che non guardano agli avvenimenti storici con la logica delle tifoserie contrapposte - è stata, in sostanza, la seguente: la preoccupazione fondamentale di Putin “è di non avere la NATO ai confini”. Ma con questa affermazione sottintendevamo: “non avere gli Stati Uniti ai confini”.
Lo ripeto: non è che
questo elemento non ci sia stato e non abbia avuto, e non continui ad avere, un
importante peso. Come un peso significativo l’hanno certo avuto le concause che
la logica raziocinante cui siamo abituati non avrà certo mancato di squadernarci
davanti: dagli scossoni sempre più intensi provocati, a scala mondiale, dal
crollo accelerato della globalizzazione economica (a partire dalla crisi
economica del 2008) al connesso e spettacolare dissolvimento dell’unipolarismo
a stelle e strisce, che pure sembrava così stabile dopo i fatti del 1989 – 1991
che chiusero la Guerra Fredda. Sono tutte cose che hanno avuto, e hanno, un
peso reale nella determinazione degli avvenimenti storici del nostro tempo,
come pure nella specifica vicenda ucraina. Ma l’aver visto gli Stati Uniti e le
loro vicissitudini come preminenti, se non addirittura come unici fattori
storici, è stato un autentico errore. Indubbiamente gli USA hanno continuato a
essere centrali negli ultimi trent’anni. Ma lo sono stati solo considerando in
blocco l’insieme del trentennio. Non è che siano stati centrali sempre e
dappertutto. E forse proprio sullo scacchiere europeo avremmo dovuto
considerare altri fattori come fondamentali.
Il punto è che con la fine
della Guerra Fredda si sono rapidamente determinati, nell'Est europeo, due
fatti di grande rilevanza storica. Anzitutto c’è stata l'autonomizzazione
reale, e via via sempre più perentoria, degli Stati dell’ex Patto di Varsavia dal
loro potente vicino. Capifila di questa dinamica Polonia e Cecoslovacchia (poi
rapidamente suddivisasi in Repubblica Ceca e Slovacchia); ma in realtà il
distacco è avvenuto con sorprendente accelerazione anche per l'Ungheria, per la
Bulgaria e per la Romania. In sostanza, un'intera linea che va dal Mar Nero al
Baltico - parliamo di più di 90 milioni di abitanti e di un
territorio che è circa tre volte l’Italia – ha sciolto i legami con Mosca e ha
infittito i rapporti con l’Occidente. Anzi, con l'ingresso nell'Unione Europea
e con l'ingresso nella NATO, quegli Stati hanno assunto, verso Mosca, una
postura che se è eccessivo definire di esplicito contrasto, si è sviluppata
comunque nelle forme di una gelida antipatia.
L’altro processo, che si è
rapidamente intrecciato col primo, è stata la creazione, anche in Europa, di
sei nuovi Stati, resisi indipendenti nel contesto della dissoluzione dell’URSS.
Di questi, solo uno, la Bielorussia, ha continuato a mantenere stretti legami
con la Russia, mentre gli altri cinque - Estonia, Lituania, Lettonia, Moldavia
e soprattutto Ucraina - hanno assunto un crescente atteggiamento di freddezza,
se non di vera e propria revanche, nei confronti della Federazione
Russa. E le tre repubbliche baltiche sono anche rapidamente entrate nell’Unione
Europea e nella NATO, cosa che formalmente non è avvenuto per l’Ucraina e la
Moldavia, sulle quali, non a caso, la tensione è divenuta progressivamente più
forte e drammatica.
4) In breve, dal punto
di vista del Cremlino la sempre più robusta e integrata linea dei Paesi che vanno dal Baltico al
Mar Nero si è configurata, non poteva essere diversamente, come una sostanziale
“frontiera ostile”. D’altronde, in diversi di quei Paesi s’erano mantenuti vivi
sentimenti profondamente nazionalisti ed esplicitamente antirussi, che li
portavano a considerare il rapporto con la nuova Mosca post-comunista alla
stregua di un conto ancora in sospeso. In molti hanno spiegato questa
circostanza con l'oppressione da essi subita nell'ambito della Cortina
di ferro. E non è che questa spiegazione non abbia la sua parte di verità,
come chiaramente dimostrato dalla invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956 e
della Cecoslovacchia nel 1968. Ma il contenzioso aveva, in realtà, più antiche
e profonde radici. E in alcuni casi, pesava come un macigno proprio la storia
tragica della Seconda guerra mondiale.
La Seconda guerra mondiale
aveva infatti confermato, in Ucraina e in Ungheria, come pure in Romania e
Bulgaria, un orientamento filotedesco (e non di rado filonazista) ben più ampio
di quanto si è poi detto e scritto nel dopoguerra. Del resto, sia la Romania
che l’Ungheria aderirono formalmente all’Asse Italia-Germania nel 1940, mentre
la Bulgaria lo fece nel 1941 (cambiando poi fronte nel settembre del 1944). E
se l’impegno bulgaro a fianco dei tedeschi restò abbastanza modesto,
limitandosi alla occupazione di territori di confine in Grecia e in Serbia, le
truppe rumene e magiare che parteciparono all’invasione della Jugoslavia
(dall’aprile del 1941) e dell’URSS (dal giugno del 1941) furono consistenti.
Soprattutto lo furono quelle della Romania, animate da un revanscismo
aggressivo, avendo dovuto cedere la Moldavia nel 1940, occupata dai
russi col beneplacito tedesco nell’ambito del Patto Ribbentrop-Molotov.
Quanto all’Ucraina - che
aveva fatto parte fin dal 1922 dell’URSS (era uno degli Stati fondatori, il più
importante dopo la Federazione Russa) - essa fu subito occupata dai tedeschi
tra il giugno e il luglio 1941 nell’ambito dell’attacco alla Unione Sovietica;
ma in buona parte si rivelò, per Berlino, “territorio amico”. Gli ucraini
arruolati come truppe ausiliarie assommarono a oltre 250mila uomini, ed è noto
che alcuni di quei distaccamenti si distinsero particolarmente nei massacri più
efferati di ebrei e prigionieri russi (per citarne uno, è ampiamente provato il
coinvolgimento, numericamente preminente rispetto agli stessi tedeschi, dei
militi ucraini nella feroce strage di Babij Jar, l’ampio fossato nei pressi di
Kiev dove furono uccisi, nella sola notte tra il 29 e 30 settembre 1941, ben
33771 ebrei ed ebree, come dettagliatamente attestato dalla pignola contabilità
del comando tedesco).
5) Tra i paesi ex
sovietici e ex Patto di Varsavia ridefinitisi come “linea ostile” a Mosca, il ruolo politicamente
preminente è stato rapidamente assunto, negli ultimi due decenni, dalla
Polonia, la quale non si è limitata a raffreddare i rapporti con la Russia e a
collocarsi convintamente nell'Unione Europea e nella NATO, ma ha anche
proceduto a un significativo riarmo. Di fatto, oggi come oggi, l’esercito
polacco è, in Europa (eccezion fatta per la Russia e l'Ucraina in guerra), il
più consistente sul piano numerico e uno dei più avanzati sul piano della
tecnologia militare.
Pur con questo esercito
particolarmente numeroso, la Polonia non può ovviamente dirsi una vera potenza
militare. Ma è significativa la progressione che ha compiuto in direzione del
militarismo. Se la sua spesa militare annua (secondo dati riferiti al 2022 da
uno studio del SIPRI, l’affidabile Istituto svedese di ricerca sulla pace
internazionale) sembra presentarsi ancora largamente inferiore all'Italia in
termini assoluti (16 miliardi e mezzo di dollari contro i 33 miliardi e mezzo
dell’Italia), di sicuro è ben maggiore in riferimento al Prodotto Interno Lordo
(2,39% il dato polacco e 1,68% il dato italiano). Anzi, sul piano della
percentuale di spesa militare, la Polonia è decisamente al primo posto in
Europa (eccezion fatta, ovviamente, per Russia e Ucraina).
Orbene, anche nel caso
della Polonia sono esistite corpose ragioni di contrapposizione con la Russia
connesse alle vicende della Seconda guerra mondiale. Nella prima fase della
guerra, dal settembre 1939 al giugno 1941, il territorio orientale polacco fu
occupato, come è noto, dai russi, i quali attaccarono il Paese sulla base degli
accordi con la Germania nazista stipulati col Patto Ribbentrop-Molotov, firmato
il 23 agosto 1939 a Mosca e così chiamato dal nome dei firmatari, i ministri
degli esteri di Germania e URSS. Si trattava di un “Patto di non aggressione”
con durata decennale; che però aveva anche un riservato protocollo aggiuntivo,
riguardante “i punti sui quali le Parti contraenti sono interessate nel campo
della politica estera”. Ai governi e all’opinione pubblica mondiale vennero
comunicati i soli 7 articoli del Patto e non i 4 articoli del protocollo
aggiuntivo; ma le cose si chiarirono nel giro di pochissime settimane: il 1°
settembre l’esercito tedesco varcava la frontiera occidentale della Polonia e
il 17 l’armata rossa penetrava dalla frontiera orientale.
Fu davvero un fatale
settembre, proseguito con le dichiarazioni di guerra alla Germania di Francia e
Inghilterra (3 settembre) e con l’imposizione a Estonia, Lituania e Estonia di
un Patto di assistenza e mutua difesa con Mosca (28 settembre), che prevedeva
la presenza di truppe russe nei tre Stati (le tre repubbliche saranno poi
rapidamente annesse dai russi nel giugno del 1940). La Finlandia rifiutò di
firmare un dispositivo analogo e venne attaccata dall’armata russa il 30
novembre. Resistette però vigorosamente fino all’armistizio del 12 marzo 1940,
trasformatosi, nello stesso mese di marzo, nel trattato di Pace di Mosca, col
quale la Russia acquisiva il 10% del territorio finlandese. Poi, dal giugno
1941 al settembre del 1944, il conflitto russo-finnico riprese e fu ancora più
cruento, sia perché a fianco dei finnici si misero i tedeschi e sia perché i
russi furono sostenuti in particolare dagli inglesi. La conclusione di questa
seconda guerra russo-finnica, inglobata nel più vasto scenario della Guerra mondiale,
avvenne con la tregua del 19 settembre 1944, che costò alla Finlandia ulteriori
concessioni territoriali, definite nel 1947 coi trattati conclusivi della
Seconda guerra mondiale.
Tornando alle vicende
polacche, io inclino a credere che ancora più mortificante dello stesso inizio
sia stato, per la coscienza nazionale polacca, proprio l'esito della Guerra. Il
Paese aveva subito immani distruzioni e contava un numero altissimo di caduti
tra civili e militari – con più di 5 milioni e mezzo di morti, la Polonia
figura al quarto posto della macabra graduatoria per numero di numero di
vittime, dopo l’URSS, la Cina e la Germania (per avere un termine di paragone,
basti pensare che le vittime di nazionalità italiana furono complessivamente,
dal 1940 al 1945, poco più di 450mila) -; ma la sua aspirazione a tornare nei
confini precedenti fu seccamente frustrata.
Detto in estrema sintesi,
il nuovo Stato perdeva a est circa 185.000 km² e 15 milioni di
abitanti, inglobati all'interno dell'URSS, nelle aree che poi, alla fine della
Guerra Fredda, si sarebbero definiti come i nuovi Stati sovrani di Ucraina, Bielorussia,
Lituania e Lettonia. E quelle perdite venivano solo in parte compensate a ovest
(circa 110mila km² a spese della Germania). Per sintetizzarla coi numeri, lo
Stato polacco dell’agosto 1939 comprendeva un territorio di 389.000 km²;
ma l’ampiezza territoriale riconosciutagli nel 1945 fu di soli
312.000 km². In sostanza oltre 77.000 km² (più di tutta l’Italia
meridionale, dall’Abruzzo alla Calabria) cessavano di essere polacchi. Insomma,
senza neppure andare al passato più antico, e cioè al lungo periodo di
controllo zarista del Paese, ritengo che la crudezza di questi ultimi numeri -
definiti a Yalta da USA, Gran Bretagna e Russia, e poi sanciti con piccoli
ritocchi nel 1945 e rimasti immutati dopo il collasso dell'URSS nel 1991 –
spieghi, almeno in parte, il risentimento polacco verso la
Russia e la Bielorussia. Risentimento che si intreccia, peraltro, al
confliggere di interessi per il controllo del Baltico.
6) Non vorrei essere
frainteso. Io non sostengo affatto che
l'unica o più importante ragione di contrasto tra la Russia e i Paesi
provenienti dall’ex Patto di Varsavia e dall’ex Unione Sovietica debba essere
ricondotta alla Seconda guerra mondiale. Reputo però una mancanza
obiettivamente distorcente il fatto che nella interpretazione degli avvenimenti
sviluppatisi dalla fine della Guerra fredda in poi, un tale retroterra non sia
stato preso neppure in considerazione. Questa dimenticanza – “dimenticanza”, ad
essere buoni – ha inciso piuttosto riduttivamente soprattutto sulla lettura
della posizione russa che si è data in Occidente. Anche nel caso di Mosca,
infatti, la Seconda guerra mondiale bisognerebbe vederla come uno snodo
decisivo.
Intanto lo è di sicuro sul
piano soggettivo, in riferimento al senso comune: il ricordo della “grande
guerra di patriottica” contro la Germania accomuna oggi in Russia tanto i
nostalgici dello zarismo quanto i nostalgici dell’URSS. Vladimir Putin, che raccoglie
dentro di sé entrambe le nostalgie, esemplifica questo diffuso sentimento con
la convinzione che l’esito della Guerra Fredda sia stato “ingiustamente”
catastrofico per la Russia proprio perché ha cancellato non solo la Russia
storica degli zar, ma anche le specifiche conquiste politiche e territoriali
della Seconda guerra mondiale. E se facciamo parlare i numeri lo scenario si
presenta davvero come uno sconvolgimento. L’impero zarista aveva nel 1914
un’estensione di circa 22 milioni di km², di cui 5 milioni in Europa. La
popolazione era di oltre 180 milioni di abitanti, e in stragrande maggioranza
viveva nella Russia europea. Una quindicina degli attuali Stati europei e
asiatici rientravano nei confini di quell’impero, come pure ampi territori
appartenenti oggi ad altri Paesi. Per l’Europa si tratta di Finlandia, Estonia,
Lettonia, Lituania, Bielorussia, Moldavia e Ucraina. E va ricordato che era
inoltre sotto l’autorità zarista anche una parte consistente della attuale
Polonia, compresa Varsavia.
Tutti queste territori, e
altri in Asia, la Russia li dovette cedere alla Germania e ai suoi alleati
(Austria, Turchia e Bulgaria) col trattato di Brest Litvosk (3 marzo 1918). Si
trattò di un travaso gigantesco di terre e popoli. Per utilizzare ancora una
volta i numeri, la Russia perdeva 56 milioni di abitanti, pari al 32% della
popolazione del 1914. Poi, come è noto, la Germania del Kaiser perse la guerra,
e i territori ex zaristi restarono o fuori dalla Russia o furono ricompresi
negli esiti tumultuosi della guerra civile tra bianchi e rossi.
Sul piano internazionale
il fatto veramente nuovo avvenne giusto alla fine degli anni Trenta, tra il
settembre 1939 e la primavera del 1941, allorché l’Unione Sovietica di Stalin,
col beneplacito della Germania nazista, ampliò di alcune centinaia di migliaia
di km² il proprio territorio in Europa, a spese di Polonia, Finlandia,
Repubbliche baltiche e Romania. Infine, dopo la vittoria sulla Germania,
l’Unione Sovietica si vide riconosciuto un territorio di oltre 22 milioni
di km², pari all’incirca all’estensione del precedente Impero zarista. E
le cose restarono così dal 1945 al 1991, cioè fino, appunto, alla conclusione
della Guerra fredda, quando la Russia si “ridusse” a una superficie di
17.098.242 km²: cinque milioni e passa di km² in meno rispetto all’epoca
zarista e all’epoca sovietica. E questo spettacolare ridimensionamento veniva
confermato anche dai numeri che concernono la popolazione: circa 25 milioni
sono tuttora i russofoni domiciliati in Paesi diversi dalla Russia.
Insomma, fuori dai confini
riconosciuti alla Federazione Russa nel dicembre 1991 (in quel mese, l’URSS
cessò anche formalmente di esistere: prima con la creazione della Comunità di
Stati indipendenti creata da Russia, Ucraina e Bielorussia con l’accordo del
giorno 8, e poi con le dimissioni di Gorbačëv e l’ammainarsi della bandiera
sovietica sulle mure del Cremlino avvenuti il giorno 25), si situano tuttora
amplissimi territori che i molti nazionalisti nostalgici dell’Impero zarista e
dell’Età stalinista considerano “naturalmente russi”: per storia, lingua e
tradizioni culturali. Agisce cioè, con corpose conseguenze politiche e
culturali, una visione oggettivamente aggressiva del proprio interesse statale,
che poggia su una declinazione esplicitamente imperiale dell’identità nazionale
e si alimenta dei miti sciovinisti di difesa della cristianità ortodossa e
della missione di civilizzazione euro-asiatica che spetterebbe ai russi. Certo,
si può anche sbrigativamente concludere che si tratti di una anacronistica
coscienza storica. Ma un simile giudizio non modifica in nulla il punto
storiograficamente decisivo: non capiremo mai fino in fondo le ripetute
aggressioni putiniane nel Caucaso e l’invasione odierna dell'Ucraina se non
prendiamo in seria considerazione sia il radicato sentimento nazionalista
dell’attuale società russa e sia il profondo risentimento che attraversa
l’insieme della realtà russa per la perdita dei territori appartenuti prima
all’Impero zarista e poi all’URSS.
7) Il risentimento è
una forza storica reale. Nelle
vicende dei popoli e degli Stati, ma in verità anche nelle vicende più
particolari e immediate degli esseri umani, l'idea che gli avvenimenti
procedano immancabilmente sulla base dell'interesse e degli affari è davvero
riduttiva. Occorrerebbe, piuttosto, mantenere salda la visione
d’insieme, comparando la totalità delle spinte e la forza delle concrete
dinamiche di soggettivizzazione storica. E questo richiamo metodologico vale
per la Russia, ma vale per l'Occidente. Vale per ciascuno dei Paesi
dell'Occidente. Vale in realtà per tutto il mondo.
In altre parole, la mia
sottolineatura, a proposito della guerra in Ucraina, è che bisogna prendere in
debita considerazione il versante specificamente europeo delle questioni,
evitando di ricondurre univocamente le cose agli interessi economici e geopolitici
a scala globale. Non si fraintenda: so bene che una grande potenza nucleare
agisce costantemente anche sugli interessi globali; e so parimenti come proprio
dentro il contesto degli interessi globali si situino le consistenti ragioni di
contrasto che permangono tuttora tra Mosca e Washington, contrasto che è
vieppiù complicato dalla presenza sullo scacchiere mondiale della Cina e di
altre potenze emergenti. Ma la politica globale delle superpotenze, come pure
delle potenze emergenti, non cancella affatto l'importanza dei grovigli di
contraddizione che storicamente si sviluppano negli scacchieri specifici. Anzi
se ne alimenta ulteriormente; e in determinati passaggi gli stessi interessi
globali cedono rapidamente il passo alle contraddizioni dei contesti specifici
e vanno al loro rimorchio.
E a mio parere è proprio
questo che sta accadendo nell'attuale passaggio storico: con i molti nodi
irrisolti dell'Europa e il suo costitutivo disequilibrio che tornano al centro
nella storia mondiale. Tornano per la Russia; ma a ben vedere tornano anche per
l'Occidente, che proprio sull'equilibrio europeo e sulle guerre europee sta
conoscendo inaspettate dinamiche di disarticolazione e differenziazione. Che
gli Stati Uniti abbiano progressivamente agito nel corso del XX secolo e
all'avvio di questo XXI con una logica palesemente imperiale, credo sia una
convinzione abbastanza diffusa. E poiché corrisponde abbastanza alla verità
storica, non ritengo che, almeno in questa sede, valga la pena di soffermarsi
più di tanto sugli interessi imperiali statunitensi.
Ritengo invece piuttosto
necessario appuntare l’attenzione su alcuni Stati dell’Europa occidentale:
anche perché si è prodotta col tempo, e permane tuttora, una corposa opacità
interpretativa sul versante europeo dell'Occidente. Penso, in sostanza, che per
cogliere qualcosa di più preciso sul mondo che attualmente viviamo, si dovrebbe
guardare da vicino soprattutto il versante europeo dell'Occidente. Chiedendoci,
ad esempio, se siano stati davvero archiviati, nei Paesi che hanno avuto grandi
imperi coloniali, il risentimento e la cultura
imperiale.
8) Do per scontato che
si sappia, almeno nelle linee generali, cosa sia stato il colonialismo europeo e quanto
abbia pesato nelle vicende del mondo. Anche l’enorme espansione della Russia
zarista fu una dinamica coloniale, nonostante la continuità territoriale dei
territori asiatici con la Russia vera e propria; e indubbiamente coloniale è
stato il potere statunitense nelle vecchie colonie spagnole di Cuba, Porto Rico
e Filippine dopo la guerra del 1898. Ma ciò che comunemente si intende come
colonialismo si riferisce specificamente ad alcuni Paesi dell’Europa
Occidentale e, di conseguenza, alle relazioni tra l’Europa, l’Africa e l’Asia
nell’intero arco temporale della Modernità.
Gli atlanti geografici
della fine dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento lo dicevano a chiare
lettere che un terzo delle terre emerse del globo apparteneva a Sua Maestà
Britannica. E la Francia seguiva a ruota. Anche Paesi di più ridotte dimensioni
- come l'Olanda, il Portogallo e il Belgio -, nonché alcuni Stati di più
recente formazione, come l'Italia e la Germania, possedevano estese colonie. E
qualcosa manteneva, qua e là, ancora la Spagna. Di fatto, ancora alla fine
della Seconda guerra mondiale, nel 1945, soprattutto la Gran Bretagna e la
Francia (ma non solo loro) potevano sventolare le loro bandiere sulla quasi
totalità del continente africano e dell'Oceania e su amplissime aree dell'Asia.
E l’attuale dibattito storiografico ha opportunamente messo in chiaro come
proprio il crollo della realtà coloniale - che si avviò nel corso della Seconda
guerra mondiale e si completò nei 35 anni successivi - sia stato l’avvenimento
con più profonde e durature conseguenze nella Modernità dispiegata. Quando succede
- come è effettivamente successo tra il 1945 e il 1980 - che 43
colonie e 4 quasi-colonie, abitate dal 40% della popolazione mondiale, si
rendono indipendenti dai governi europei, è del tutto evidente che si sta
passando (lo diceva già nel 1964 il grande storico inglese Geoffrey
Barraclough) dalla storia incentrata sull’Europa alla vera e propria storia
mondiale.
Va anche sottolineato che
i 35 anni della decolonizzazione videro agire più spinte. Ci
fu, ovviamente, il risoluto impulso all'indipendenza dei popoli soggetti, o
almeno delle loro classi dirigenti in formazione, che perseguirono un tale
risultato talora puntando ad accordi di compromesso con gli interessi economici
delle potenze coloniali e talaltra facendo assegnamento su più aperte dinamiche
rivoluzionarie. Ma ci fu anche la pressione del nuovo organismo
internazionale che sostituiva la Società delle Nazioni (nata già debole nel
1919 e poi andata in frantumi con l'avvio della Seconda guerra mondiale). La
posizione critica dell'ONU dipese, in quegli anni, dalla attiva partecipazione
competitiva delle due superpotenze Stati Uniti e URSS, entrambe ideologicamente
estranee al colonialismo, seppure con altalenante coerenza. Di contro, le
potenze coloniali europee resistettero il più possibile alle pressioni
internazionali, come pure alle insorgenze popolari. Ci fu anzi un ripetuto
“attivismo riformatore” delle politiche coloniali, immancabilmente teso a
cambiare le forme e a mantenere la sostanza.
Il punto è che tutte e tre
le “ragioni tradizionali” del colonialismo – ovvero: 1) l’auto-proclamato
“diritto delle potenze” a utilizzare le materie prime e le risorse di lavoro
che nei territori “incivili” dell’Africa e dell’Asia sarebbero rimaste altrimenti
inutilizzate; 2) la presunta “missione civilizzatrice” dell’Europa, quasi un
“obbligo morale” nei confronti delle “società arretrate” dell’Africa e
dell’Asia; 3) la colonizzazione come sbocco comunque necessario dell’eccedenza
demografica europea – avevano comprensibili difficoltà a essere non dico
“rivendicate”, ma anche semplicemente accennate. Per quelle tesi, dopo la
gigantesca orgia di suprematismo, oppressione e sterminio della Seconda guerra
mondiale, non c’era più alcun reale “spazio politico-morale” di legittimazione.
Il razzismo continuava, ma non lo si poteva più sbandierare apertamente. Come
pure continuava la rapina di ricchezze e risorse, ma occorreva chiamarla con un
altro nome.
Soprattutto l’Impero
inglese e l’Impero francese hanno provato, in parte riuscendoci e in
parte no, a resistere in nuove forme. In alcuni casi, la loro ostinazione – per
esempio, la Francia in Indocina e in Algeria, l’Inghilterra in Kenya - ha
significato guerre (e sconfitte) sanguinose; in altri casi, le trasformazioni
economiche e giuridiche dei rapporti coloniali – per esempio, l’istituto
del Commonwealth per le ex colonie inglesi e il Franco CFA per le
colonie ex francesi dell’Africa - ha salvaguardato, non senza conflitti anche
aspri e talora cruenti, l’influenza economica, politica e culturale della
“madrepatria”. In ogni caso, considerando le cose nel loro insieme, i 35 anni
della decolonizzazione hanno significato un colossale
e ininterrotto arretramento per gli inglesi e i francesi.
9) Se sul piatto della bilancia mettessimo, da un lato, ciò che ha perso la Russia con la sconfitta della Guerra Fredda e, dall'altro. ciò che hanno perso Francia e Inghilterra con la decolonizzazione, non è affatto detto che il piatto penda dal lato della Russia. E forse è proprio il risentimento la cosa che più accomuna tutte e tre le potenze nucleari dell'Europa. Anzi, a me pare che le accomuni anche una sorda e insistente voglia di rivincita.
Si può anche fare
dell'ironia sugli atteggiamenti di grandeur della Francia, ma
le sue 300 testate nucleari, sviluppate e gestite in completa autonomia dagli
Stati Uniti, rimangono un fatto concreto. Come pure è qualcosa di molto
concreto la determinazione con la quale i governi di Parigi hanno costantemente
agito dopo la perdita dell'Algeria nel 1962. In tutta l'Africa subsahariana
ancora oggi non si incontrano soltanto ingegneri e uomini d'affari, ma anche
militari francesi impegnati a collaborare a vario titolo coi governi. E quando
le cose precipitano, o ci sono conti da regolare, si muovono con grande
facilità anche le portaerei e i sommergibili. Nel 2011, fu proprio la Francia
di Sarkozy, seguita a ruota dall'Inghilterra e poi dagli Stati Uniti, a
spingere per il dispositivo Onu del 17 marzo che instaurava la no fly
zone su tutto il territorio libico in aiuto dei ribelli anti-Gheddafi.
E l’interpretazione di quel mandato fu subito smodatamente estensiva. Già due
giorni dopo, ancor prima di pattugliare i cieli per bloccare gli aerei del
presidente-colonnello - come appunto prevedeva la risoluzione –, gli aerei
francesi bombardavano direttamente l'esercito libico. E per non essere da meno,
nei giorni successivi anche inglesi e americani si unirono ai bombardamenti. Si
ricorderà, peraltro, come la macabra conclusione di quella prima guerra civile
libica, avvenuta nell’ottobre dello stesso 2011 con la sbrigativa uccisione di
Gheddafi e di alcuni dei suoi figli, abbia visto ancora il protagonismo
ostentato dei francesi al fianco degli insorti.
La logica brutale del
“regolare i conti” ha caratterizzato stabilmente anche la Gran Bretagna. Nel
caso della Francia con la Libia, il nodo era costituito dal Ciad e dalla sua
ventennale guerra civile tra il 1978 e il 1987, coi libici e i francesi impegnati
a sostenere le opposte milizie e a partecipare direttamente, a più riprese, ai
combattimenti; nel caso della Gran Bretagna, il punto di frizione era
costituito dal prolungato stato di inimicizia tra Londra e Baghdad nel Vicino
Oriente. Già nel 1941 ci fu una rapida guerra tra i due Paesi, normalmente ma
piuttosto arbitrariamente ricondotta all’ambito della Seconda guerra mondiale.
In quell’anno, infatti, le truppe inglesi, che già avevano dagli anni Venti
basi militari in Iraq, intervennero per ripristinare l’autorità del sovrano
rovesciato da un colpo di Stato di ufficiali nazionalisti e filotedeschi. Ma in
realtà la questione principale, per gli inglesi, era di salvaguardare il
controllo politico, economico e militare del Paese, affidatogli in forma di “mandato”
dalla Società delle Nazioni fin dall’agosto del 1920 e ininterrottamente
mantenuto anche dopo l’indipendenza formale del 1932.
Dopo il 1945 i rapporti
tra inglesi e iracheni si complicarono. L’Iraq, al pari di Egitto, Siria e
Israele su altri versanti, divenne un obiettivo fattore di destabilizzazione
geo-politica dei corposi interessi inglesi in Medioriente, arginato solo per qualche
anno dal “Patto di Baghdad” stipulato nel 1955, che metteva assieme, in un
impegno di “mutua difesa”, Iraq, Iran, Turchia, Pakistan e, appunto, Gran
Bretagna. Di fatto, nella cruciale crisi di Suez del 1956 - che vide scontrarsi
sul campo, da un lato, l’alleanza (non dichiarata pubblicamente) di inglesi,
francesi e israeliani e, dall’altro, gli egiziani, guidati dal presidente
Nasser e sostenuti politicamente sia dagli USA che dalla Russia – fu proprio
l’Iraq a svolgere, assieme ad Aden, il ruolo di base logistica per la breve
occupazione anglo-francese del canale.
Ad ogni modo, nel 1958 le
forze nazionaliste riuscirono ad abolire monarchia, dichiaratamente
filo-inglese, e indirizzarono l’Iraq verso una maggiore autonomia politica ed
economica, passando rapidamente dall’iniziale nasserismo alla sostanziale
dittatura politico-militare del partito Ba’th. Per gli inglesi, che il 30
maggio 1959 dovettero chiudere l’ultima base militare nel Paese, fu uno smacco
cocente. Conservarono comunque, per oltre un decennio, una significativa
presenza economica attraverso il colosso petrolifero Iraq Petroleum Company, di
cui restarono importanti azionisti (assieme ai francesi) fino alla
nazionalizzazione della compagnia, che avvenne nel 1972.
Poi la lunga e
sanguinosissima guerra tra Iraq e Iran (1980 – 1989) – alimentata dal
tradizionale contrasto religioso e culturale tra sunniti e sciti e avviatasi
per talune specifiche dispute di frontiera, ma subito combattuta anche con la
dichiarata finalità di vedersi riconosciuto il ruolo di massima potenza
regionale - allentò considerevolmente i contrasti tra le potenze occidentali e
il regime iracheno, considerato il “male minore” rispetto alla teocrazia
iraniana. E comunque, per tutta la durata del conflitto, gli inglesi e i
francesi furono ampiamente a rimorchio dell'iniziativa USA; la quale, peraltro,
fu davvero spregiudicata, poiché da un certo momento in poi fornì armi a
entrambi i contendenti al fine di prolungare il conflitto e indebolirli (la cosa
venne fuori con il cosiddetto “scandalo Irangate” del 1985 – 86, benché la
ricostruzione riportata nei dispositivi, piuttosto miti, di condanna per alcuni
alti ufficiali americani si sia comunque attestata sulla tesi, piuttosto
riduttiva, che la finalità della CIA, nel traffico di armi con gli ayatollah di
Teheran, fosse solo di recuperare fondi segreti per sostenere i contras in
Nicaragua).
Maggior protagonismo gli
inglesi lo ebbero, invece, nelle due Guerre del Golfo, soprattutto nella
seconda, concretizzatasi nell’invasione dell’Iraq nel marzo 2003. Mentre nella
prima guerra – quella seguita alla conquista irachena del Kuwait del 1990 e durata
fino al febbraio 1991 – nessuna delle potenze europee ebbe un vero autonomo
spazio di manovra, sia per l’ampiezza stessa della coalizione (35 Paesi) che
per i limiti chiari del mandato ONU, di cui si facevano garanti gli USA,
capofila e indiscutibilmente egemoni sul piano politico e militare, la guerra
del 2003, che si svolse senza mandato ONU e vide il costituirsi di una
ristretta “Coalizione di Paesi volenterosi” (solo quattro nella fase
dell’invasione vera e propria – USA, Gran Bretagna, Polonia e Australia – e
comunque meno di dieci, tra cui l’Italia per alcuni anni, nel successivo
periodo di cosiddetta “stabilizzazione” del Paese occupato).
In quella guerra il ruolo
degli inglesi fu cospicuo anche sul piano militare, benché in funzione
subordinata rispetto agli USA. Ma soprattutto essi ebbe un indubbio peso
proprio nella costruzione politica della invasione, attraverso una insistente
campagna sulle “armi di distruzione di massa” del regime di Saddam Hussein. Non
si tratta di un dettaglio, perché l’invasione dell’Iraq fu preceduta da un
serrato dibattito internazionale proprio sull’esistenza o meno di tali armi,
che vide, sullo scacchiere europeo, l’esplicita contrapposizione tra la Gran
Bretagna, da un lato, e la Francia e la Germania, dall’altro.
Nel 2014, a distanza di
più di 10 anni, si ebbe la pubblicazione del Rapporto Chilcot, risultato di una
inchiesta ufficiale, durata sette anni, voluta dal governo e dal parlamento
britannico. Fu un lavoro meticoloso, registrato oggi in dodici volumi. Ebbene
quel Rapporto non solo stigmatizza il fallimento politico della guerra -
avviatasi col proposito di rendere più stabile e sicura la regione
mediorientale, aveva in effetti potentemente contribuito a trasformarla nel
luogo più instabile del Pianeta -, ma fa anche piena luce sul carattere
strumentale della campagna sulle “armi di distruzione di massa” di Saddam
Hussein. Mette, cioè, nero su bianco come l’allora premier Tony Blair avesse
“deliberatamente ingigantito” la pericolosità delle minacce provenienti
dall’Iraq e come non esistessero affatto le sbandierate “prove” sulla esistenza
di tali armi nei depositi iracheni.
Era ciò che il brutale
dittatore iracheno aveva sempre sostenuto. Ma, in ogni caso, egli era già stato
impiccato nel dicembre 2006, dopo un processo portato avanti con determinazione
dai nuovi governanti iracheni, che avevano il problema di sancire visibilmente
la loro autorità in un Paese che continuava a essere assai instabile e
insicuro, nonostante l’occupazione militare anglo-americana. E l’esecuzione
della sentenza, esplicitamente disapprovata da tutti i Paesi europei e dalla
Russia, vide come entusiasti sostenitori, oltre gli sciti iraniani e i curdi,
nemici storici del regime iracheno, proprio Washington e Londra.
10) Ho voluto
dilungarmi sulle vicende che in questo avvio del XXI secolo hanno visto uno specifico
protagonismo dei francesi da un lato e degli inglesi dall'altro non perché, in
sé e per sé, queste vicende abbiano una particolare importanza, ma proprio
perché sono esemplificative della voglia di protagonismo delle due ex potenze
coloniali. Peraltro sul finire del XX secolo entrambe si erano già mostrate
particolarmente attive - ma in verità non erano state le sole - nei due
interventi della NATO sui territori dell’ex Jugoslavia: quello del 1995 e
quello, ancora più cruento, nel 1999.
Non è il caso qui di
ripercorrere le vicende intricate della ex Jugoslavia, che dal 1989 in poi sì
sono caratterizzate come concentrato straordinario di nazionalismi e
risentimenti tra le repubblica e le etnie, che pure avevano convissuto,
indubbiamente con difficoltà ma senza precipitazioni drammatiche, nell'ambito
dello Stato federale e del cosiddetto socialismo autogestionario. Il che non
vuol dire che in quel periodo non ci fossero state differenze di sviluppo
economico tra le varie aree del Paese. Anzi, per certi versi esse si
solidificarono ulteriormente, poiché se è vero che il socialismo
autogestionario costruiva un rapporto più diretto tra i produttori e la
gestione della produzione e della vendita dei prodotti proprio in termini di
controllo e di autocontrollo sui tempi di lavoro e sulle modalità di produzione
e circolazione, quello stesso sistema produceva inevitabilmente una spinta alla
concorrenza ancora più accentuata del capitalismo centralizzato di Stato
dell'Unione Sovietica. Si evitava, sì, la mediazione parassitaria delle
burocrazie e degli apparati politici, ma non si costruiva una dinamica di
uguaglianza tra i vari territori, e neppure, in realtà, tra le condizioni di
lavoro e di produzione, che appunto si diversificavano quasi azienda per
azienda.
Ma lo ripeto: non serve
qui percorrere come quelle disomogeneità e quei contrasti siano diventate
contrapposizioni etniche e territoriali, e come le contrapposizioni siano a
loro volta diventate ragioni di guerra. Mi limiterò soltanto a ricordare
il ruolo importante di un altro grande Paese europeo nella precipitazione degli
avvenimenti. Mi riferisco alla Germania, che favorì scientemente la
dissoluzione della ex Jugoslavia riconoscendo subito, senza tenere in nessun
conto le resistenze e le perplessità degli stessi francesi e inglesi,
l'indipendenza della Slovenia, e subito dopo, a ruota, l'indipendenza della
Croazia. Difatti, nell'ambito del contesto europeo, proprio negli anni della
crisi e della dissoluzione dell'URSS, cioè dal 1989 fino alla metà degli anni
’90, la Germania spinse fortemente sulla mitologia della Mitteleuropa, cioè di
un'area politico-territoriale che andava, per l’appunto, dai Balcani ai paesi
baltici. Lo faceva proprio per ritagliarsi un ruolo chiaro di protagonista
negli sconvolgimenti dell’Est europeo: non solo in funzione antirussa, ma anche
in una logica di competizione con gli stessi alleati occidentali.
D’altronde tutto quel
periodo (ma a ben vedere succede anche nel periodo attuale) ebbe come
importante caratteristica proprio il rifiorire delle tradizionali mitologie
identitarie, ognuna distinta e confliggente con le altre. Anzi,
le mitologie sono state non solo un’autentica costante degli ultimi decenni, ma
hanno infittito significativamente il reticolo intricato dei contrasti e delle
connessioni. Va da sé che Francia e Inghilterra non avevano mai smesso di
mantenere vive le rispettive mitologie imperiali, e però adesso, dalla fine
della Guerra Fredda in poi, un ruolo parimenti notevole nella riarticolazione
degli equilibri e degli squilibri l’ha avuto la mitologia dell’angli-americanismo, cioè
l’ideologia (nel senso deteriore del termine) di una “naturale solidarietà” -
cementata dalla lingua, dalla cultura, dalla tradizione politica e dalla
integrazione economica - tra inglesi e americani. Ad essa la Germania ha rapidamente
ricominciato a contrapporre il mito della Mitteleuropea, mentre soprattutto la
Francia ha rispolverato, con determinazione e in molte forme, il “primato
morale e civile” degli europei, richiamandosi scopertamente all'Europa “delle
origini”, cioè quella del XVII, XVIII e XIX secolo, allorché Parigi funzionava
come una sorta di capitale europea e il francese era la lingua ufficiale delle
classi dominanti.
11) Penso che sia il caso di provare a tirare qualche provvisoria conclusione del ragionamento. Sottolineo, per prima cosa, i tre aspetti centrali che hanno sostanziato fin qui la riflessione (e di cui vorrei fosse colta l’importanza nella interpretazione dell’attuale disordine mondiale). Mi riferisco: a) alla tesi della dimensione europea nella genesi, nello sviluppo e nella articolazione della guerra in Ucraina; b) all'importanza, che ho più volte richiamato, delle mitologie identitarie nella costruzione dei concreti avvenimenti storici determinatisi in Europa dalla Seconda guerra mondiale a oggi; c) al persistente groviglio dei risentimenti prodotto, e costantemente alimentato nel senso comune, dalla drammatica storia degli Stati europei nel corso del XX secolo.
Non si tratta di tre
dinamiche distinte l'una dall'altra, bensì di elementi saldamente intrecciati:
sia in quanto paradigmi interpretativi e sia in quanto spinte effettive,
inevitabilmente confuse e contraddittorie, degli avvenimenti. E sono ovviamente
intrecciati anche con tutti gli altri elementi che sostanziano la storia
concreta degli esseri umani: ovvero con gli interessi specificamente economici,
con le articolazioni e le ragioni politiche di Stato, con la salvaguardia delle
rispettive posizioni nella gerarchia geopolitica dei Sistemi-Paese, con le
contraddizioni sociali all'interno di ciascun Sistema-Paese, con le
articolazioni interne alle classi dominanti e alle classi subalterne, con le
dinamiche di progressione e regressione delle tecnologie e dei saperi
consolidati. Questi elementi, nella presente esposizione, ho dovuto
tralasciarli per necessità di scrittura. Lo dico non per scusarmi, ma proprio
per richiamare l'attenzione di chi legge su quanto è scritto e non su ciò che
non c'è scritto. Il tentativo temerario, e forse velleitario, di queste pagine
è, infatti, di aprire spiragli ignorati o troppo sbrigativamente trascurati. Il
mondo sta rapidamente e profondamente cambiando sotto i nostri occhi, ma
continuiamo a guardarlo, per lo più, con le identiche coordinate che abbiamo
usato nei decenni passati. E questo è un gigantesco problema.
Per procedere con la brutalità opportuna, io ritengo che noi - tutti noi figli della modernità dispiegata: sia in quanto sostenitori appagati del capitalismo e sia in quanto oppositori più o meno implacabili dello sfruttamento e dell’oppressione dell’uomo sull’uomo - dovremmo risolutamente andare oltre l'idea che abbiamo linearmente mutuato dall'economia politica del Settecento inglese: oltre l’idea, cioè, che gli avvenimenti storici non siano altro che “questioni di affari”. Questa idea, neppure Karl Marx e Friedrich Engels, che hanno sempre ragionato da filosofi e non da economisti, l'hanno contrastata come avrebbero dovuto. La loro affermazione sul fatto che, nelle dinamiche politiche e culturali, i rapporti sociali di produzione (lo evidenzio: sociali, non la semplice funzione tecnica nell’attività economica) avessero in ultima analisi (e va sottolineato: solo in ultima analisi), una decisiva funzione storica (e anche questo va rimarcato: storica, cioè sul piano della veduta di insieme delle epoche e dei processi di lunga durata) è progressivamente divenuta, nel movimento operaio socialista e comunista, la schematica tesi della primazia assoluta, riproposta pari pari per tutti i contesti specifici, della struttura economica rispetto alla politica, alla morale, alla cultura e alle idee del senso comune, tutte cose rapidamente declassate al rango di “sovrastrutture”.
Per essere ancora più
chiaro: è solo nella testa degli economisti e degli uomini di affari che le
vicende del mondo girano, giorno dopo giorno, intorno a loro. Nel senso che
girano, certo, anche attorno a loro; ma, allo stesso modo,
girano intorno a tutti gli altri segmenti delle società umane. E
anzi si dovrebbe più sensatamente dire che le cose avvengono all'incontrario: e
cioè che sono proprio i molteplici segmenti delle società umane a girare
intorno alla totalità storica che concretamente li ricomprende
facendone un tutt'uno. Voglio dire che nelle vicende degli esseri umani hanno
un peso enorme sicuramente gli interessi economici; ma lo hanno parimenti, e in
determinati momenti anche di più, le convinzioni morali, i sentimenti, le
credenze, le memorie e tutto ciò che è stato costruito nel tempo in forma di
istituzioni, espressioni, invenzioni, saperi e relazioni.
E voglio sottolineare che
restano fortemente presenti attorno a noi anche le molte sopravvivenze dell'ancien
regime, del mondo simil-aristocratico delle gerarchie e delle
“disuguaglianze per natura”, con le loro mitologie guerriere, le quali occupano
tuttora l'immaginario pubblico più del mercante e del rivoluzionario che la
modernità dispiegata, dal Settecento in poi, ha ipotizzato come le uniche
figure esaustive dello scenario sociale. Insomma, diamo quasi per scontato che i mafiosi e le bande criminali, anche quando si sparano tra loro, se ne escano –
almeno così racconta la narrazione cinematografica - con la frase “è questione
di affari”; ma in verità lo sanno essi stessi per primi, come lo sanno gli
spettatori, che soprattutto nei fatti di sangue hanno un peso enorme, e addirittura
abnorme, i sentimenti di vendetta e le mitologie corrotte dell'onore e del
rispetto.
12) Può sembrare una banalità, ma la prima cosa da cogliere, a
proposito della guerra in Ucraina, è che concretamente la combattono ucraini e
russi. Sono loro, e non altri, i protagonisti principali di questa tragica
vicenda. Non solo perché sono loro a uccidere e a morire sui campi di
battaglia, e a vivere direttamente, come popolazione civile, le conseguenze
sanguinose dei bombardamenti; ma proprio perché sono esattamente le rispettive
ragioni ad averla cominciata e a proseguirla ancora oggi.
Dal versante della Russia
si tratta di ragioni squisitamente imperiali, e cioè della cogente
necessità degli Stati imperiali di avere il controllo pieno dei propri confini,
premendo politicamente ed economicamente, come anche militarmente quando serve,
sui popoli e sugli Stati vicini. Un grande impero concepisce normalmente i
propri confini come una “linea armata”; e normalmente tende a portarla in
avanti questa linea. Con le buone e con le cattive. Nel caso della Russia, alle
tradizionali ragioni imperiali si aggiungono i corposissimi elementi di
carattere identitario, legati alla presenza di ampie comunità
russofone all'interno dei confini ucraini, nonché taluni profondissimi motivi
di risentimento, legati, in parte, alle vicende specifiche della
relazione tra russi e ucraini negli anni della Seconda guerra mondiale e della
Guerra Fredda e in parte alla condizione, psicologica oltre che geopolitica, di
un impero ancora potentissimo, ma uscito drasticamente ridimensionato rispetto
al passato.
Dal versante dell'Ucraina
si tratta di ragioni squisitamente nazionaliste, e cioè della
assoluta necessità che ha uno Stato di recente formazione di rafforzare
l'omogeneità politica, culturale e sociale del proprio territorio, premendo
politicamente ed economicamente, come anche militarmente quando serve, sulle
comunità disomogenee, quelle che parlano un'altra lingua e vivono con altre
tradizioni culturali. È la dannazione pressoché insuperabile degli Stati nella
modernità dispiegata, i quali non sono più, non possono più essere, un fattore
di libertà dei popoli com'era successo nell'Ottocento in Europa e in America
Latina e nel Novecento in Asia e Africa, allorché le nazioni si emancipavano
proprio costruendo le proprie istituzioni statali. Oggi la sequenza è
esattamente opposta, e cioè sono le istituzioni statali che ricomprendono in sé
la “nazione” ed espungono da sé le diversità nazionali. Le nazioni del
Novecento tendono perciò spontaneamente al nazionalismo, la
qualcosa le porta - il lungo contrasto tra il governo di Kiev e le regioni del
Donbass prima dell’invasione russa lo dimostra in modo esemplare - a una situazione di tendenziale guerra interna ai propri confini, e contemporaneamente, laddove
se ne diano le condizioni, a una realtà di tendenziale guerra esterna, tesa a
ricomprendere in un unicum tutti i segmenti che hanno uguale
identità nazionale.
In questi tre anni si è
ampiamente rappresentata la guerra in Ucraina come scontro essenzialmente
ideologico tra la democrazia (l’Occidente) e l'autocrazia (la
Russia). La tesi è stata che l’attacco russo all’Ucraina fosse avvenuto proprio
perché l'Ucraina sceglieva i valori occidentali di libertà e democrazia. E
simmetricamente l'intervento dell'Occidente a sostegno della Ucraina lo si è
spiegato come un obbligo morale per difendere quei valori. La obiettiva
fragilità di tali argomenti, che saltano a piè pari il groviglio di
contraddizioni storiche solidificatesi nel cuore dell'Europa, è già emersa più
volte in queste pagine. Ma quello che maggiormente mi sconcerta è il carattere
impudicamente “ideologico”, proprio nel senso deteriore della parola, della
equiparazione di Occidente e democrazia. Viene
bellamente ignorato come anche l'Occidente si stia ridefinendo in modo
accelerato all'insegna della democratura, con sistemi di governo
che fanno convivere organicamente taluni istituti della democrazia sul piano
formale e l’autoritarismo, se non la vera e propria dittatura, sul piano
sostanziale. Non solo; anche l'articolazione interna ai poteri vede, pressoché in
tutti i paesi dell'Occidente, una forte accentuazione delle prerogative degli
esecutivi rispetto alle assemblee elettive e alle istituzioni di controllo. E
anzi si accentua vistosamente, anche nelle capitali occidentali, il peso degli
oligarchi nelle stanze dei bottoni.
Insomma, diventa sempre
più difficile distinguere fra le “democrazie” dell'Occidente e le “democrazie”
dei paesi di più lunga tradizione autocratica. L'autocrazia, sostenuta da
imponenti ondate nazionaliste e simil-fasciste, tende a diventare la regola in
tutti gli Imperi e Stati della nostra epoca.
E comunque già oggi è difficile sostenere che ci sia in Ucraina più democrazia di quanto ce ne sia in
Russia. In altre parole, la guerra in Ucraina non la si può davvero spiegare
attorno alla architrave della democrazia. Tanto più che anche per gli ucraini
agiscono corposamente, accanto al diffuso sentimento nazionalista, i risentimenti storici sedimentatesi nel tempo in varie direzioni (e cioè non solo
nei confronti dei russi, ma anche nei confronti dei polacchi, dei bielorussi e
dei rumeni). Anzi, l'identità nazionale ucraina può veramente solidificarsi
solo distinguendosi in modo netto dall'insieme dei vicini. Primi fra tutti,
ovviamente, i russi. E l'attuale guerra ne è eloquente riprova.
13) Il contrasto tra
russi e ucraini si è rapidamente ed enormemente allargato con l'intervento di molti Paesi a
sostegno dell'Ucraina: un amplissimo sostegno non solo diplomatico ma anche, e
soprattutto, in termini di forniture militari, copertura finanziaria e aiuti
economici. È un fatto che si spiega piuttosto agevolmente passando dal contesto immediato alla situazione mondiale. Quando io insisto sul
carattere “specificamente europeo” della guerra in Ucraina è soprattutto per
richiamare l'attenzione su ciò che viene sottaciuto o non compreso; ma tale
richiamo non cancella affatto, nella stessa vicenda ucraina, il peso e
l'importanza dei contrasti a scala internazionale. Del resto, l’ho già più
volte accennato: la guerra in Ucraina, oltre ad essere un conflitto
specificamente europeo, è anche un tassello della guerra mondiale a
pezzi che caratterizza la nostra epoca da almeno venticinque anni (per
dare una data indicativa, si potrebbe prendere il 1999, allorché ci fu
l'intervento della NATO nella ex Jugoslavia).
La guerra mondiale
a pezzi sta procedendo, infatti, ricomprendendo in sequenza
unitaria – con tutte le difficoltà e contraddizioni che ciò comporta –
proprio i singoli focolai armati; i quali, in sé e per sé, comunque nascono, e purtroppo nasceranno ancora, per ragioni proprie, indipendentemente da essa. Il fatto è che la loro stessa autonoma caduta nella barbarie della guerra potrà durare solo per il breve periodo iniziale, poiché la guerra mondiale a pezzi funziona come effettiva calamita di attrazione per ogni barbarie. In tal modo, anche i conflitti locali si ritrovano ben presto collegati, volenti o no, a una dinamica effettivamente mondiale; e si rafforzano contemporaneamente a vicenda tanto la tendenziale guerra a scala
generale fra i grandi schieramenti imperiali (che è ancora in
gestazione) quanto le specifiche guerre particolari tra singoli
Paesi o gruppi di Paesi (che sono già in pieno svolgimento). E va da sé che
proprio la guerra particolare dell'Ucraina tende ad assumere, in questa dinamica, un'importanza quasi di svolta: proprio perché in quel territorio specifico si
scontrano direttamente alcuni degli attori decisivi anche della guerra
a scala generale. Anzi, essa sta funzionando proprio come spinta e
controspinta nella costruzione dei grandi schieramenti globali.
Per dare un'idea di ciò
che voglio dire, vorrei richiamare una questione che ha ripetutamente
polarizzato il dibattito all'interno dello schieramento occidentale a sostegno
degli ucraini. Mi riferisco alla questione della no fly zone, ossia
alla copertura dello spazio aereo ucraino, chiesta insistentemente, fin dal
primo momento, da Zelensky ai paesi amici. La richiesta era che gli
aerei della NATO pattugliassero lo spazio aereo ucraino contro i missili, gli
aerei e gli aviogetti russi. Questo desiderio di Kiev fu sostenuto abbastanza
presto, con ripetute prese di posizione pubbliche, dai due Paesi più attivi di quella
che ho chiamato la “linea ostile” a Mosca, la Polonia e la Repubblica Ceka.
Poi, a un certo momento, la no fly zone è stata seccamente
sostenuta anche dalla Gran Bretagna (e più blandamente dalla Francia). Come è noto, la no
fly zone non è stata poi attuata, perché gli Stati Uniti d'America, a partire
dal suo presidente Biden, hanno detto seccamente “no” tanto a Zelensky quanto
ai Paesi europei che la chiedevano. E credo non sfugga a nessuno che
l'attuazione di quel dispositivo avrebbe quasi sicuramente portato alla guerra
esplicita e immediata tra la NATO e la Russia. Credo non sfugga neppure come
soprattutto la Gran Bretagna si sentisse già pronta per uno sbocco del genere.
Non stiamo parlando di
quisquilie, ma di un qualcosa che ci dovrebbe portare, piuttosto rapidamente, a diffidare dei ragionamenti semplicistici. Per esempio,
dei ragionamenti che, senza incertezze, vedono proprio negli USA il principale
sostenitore della guerra contro la Russia. L'Occidente non è un blocco
omogeneo. Non lo è mai stato. E sul piano internazionale le cose non funzionano
affatto alla maniera delle gerarchie militari. Succede solo negli eserciti, e
per la verità neppure sempre succede, che gli ordini passino senza discussioni
dal generale al colonnello e poi dal colonnello al maggiore e poi dal maggiore
al capitano e poi dal capitano al tenente. Negli schieramenti di Stato succede,
invece, che anche il più forte dovrà discutere appassionatamente per convincere i propri alleati. E
succede molto più spesso di quanto si creda che siano direttamente i Paesi meno
apicali sul piano militare a prendere le iniziative, a mettere in moto i
processi e a tirarsi dietro gli alleati più forti di loro ...
Non penso siano necessarie
altre parole. Quello che la stampa e la pletora dei commentatori che affollano
le TV sempre più apertamente qualificano come un improvviso e imprevisto
voltafaccia di Washington si spiega piuttosto agevolmente nel quadro che ho
cercato di delineare. Gli Stati Uniti stanno semplicemente considerando che il
loro impegno in una guerra europea non dovrebbe essere incondizionato. Anche
perché sono maggiormente interessati ad altri scenari bellici, dal Pacifico al Vicino
Oriente. Agli europei stanno ora bruscamente dicendo: se proprio la volete, fatevela da voi la guerra con la Russia. Cosa che peraltro gli europei stanno
seriamente considerando, come dimostrano l'attivismo anglo-francese e il riarmo
tedesco. E come dimostrano, soprattutto, la irreggimentazione accelerata delle
coscienze, tipica dei Paesi già in guerra, e l'accelerazione dei percorsi verso le democrature anche nel cuore dell'Europa, con provvedimenti normativi e pratiche di controllo sempre più
pervasive e brutali.
Ma di questi ulteriori
sviluppi, parleremo in un altro momento. D’altronde, abbiamo già tanto da fare
noi pacifisti. Dobbiamo, per esempio, mobilitarci molto più di quanto non
abbiamo fatto finora. Per la Pace e per contrastare frontalmente le politiche di
riarmo di tutti i governi, compreso il nostro. E non si può solo parlare. L'urgenza vera è di riempire concretamente lo spazio pubblico con la fisicità di chi si
oppone. E, cioè, con incisive pratiche pacifiste,
antinazionaliste, antifasciste e antirazziste.
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