Pratica di lotta, non di rassegnazione


D'accordo. Contestualizziamo. Storicizziamo, dimensioniamo, relativizziamo. Evitiamo, così come hanno perentoriamente chiesto diversi compagni a Bertinotti, e tra essi alcuni autorevoli esponenti del movimento dei movimenti, il ricorso all'astrazione. Ma se facciamo questo, occorrerà poi essere conseguenti fino in fondo. Dovremo storicizzare, sì, le situazioni concrete del conflitto, ma anche il secolo lungo e breve che abbiamo alle spalle. È da lì, infatti, che è necessario partire, dal Novecento, dai suoi anni così lungamente, profondamente segnati dalla guerra. Non solo la guerra del potere, dell'oppressione e dello sfruttamento, ma anche la guerra simmetrica degli oppressi e dei ribelli di tutte le latitudini.

Storicizzare vorrà dire perciò considerare i termini effettivi, storicamente determinati, della guerra per come essa si è sviluppata nel corso del Novecento E qui incontriamo subito una gigantesca, equivoca rappresentazione, poiché il Novecento non ha percepito subito la radicale trasformazione che esso apportava alla pratica della guerra. Da più parti il massacro del quinquennio 1914-1918 venne pensato come una continuazione delle guerre dell'Ottocento. La quarta guerra d'indipendenza si disse in Italia. Il secondo atto del duello franco-tedesco, si disse in Francia.

Eppure già in quella tragica esperienza la novità più drammatica del Novecento poteva essere letta. Mi riferisco alle vittime civili. Le guerre del XX secolo, infatti, non solo hanno falcidiato come non mai gli eserciti in armi, ma hanno seminato le strade del mondo di vittime civili, cancellando di colpo, per tale specifica ragione, le modalità belliche del Settecento e dello stesso Ottocento. E andando, anzi, ben aldilà delle stragi di inermi del passato, per esempio, rispetto alla Guerra dei trent'anni o alle carneficine dei secoli più drammatici del Medioevo. Si passa, per dirla con le nude cifre, da un 5% di civili sul totale delle vittime durante la Prima guerra mondiale all’87% del Vietnam. E quando si chiude il ‘secolo breve’, questa caratteristica si accentua ulteriormente con gli stermini etnici dei Balcani e con la stupidità assassina delle cosiddette “bombe intelligenti” delle guerre dei Bush padre e figlio.

Ma se questo avviene, l'idea – a lungo condivisa anche dal movimento operaio e dalle forze di ispirazione socialista e comunista - del continuum di guerra e politica diventa impraticabile. Per dirla in soldoni, mentre in politica la contesa resta di tipo dicotomico, nella guerra del Novecento, così come nella guerra di oggi, troviamo almeno tre soggetti distinti: i due contendenti in armi e la popolazione civile.

Il concetto di rappresentanza, in tali condizioni, funziona poco o nulla. Esso ha senso in politica, e prima del Novecento anche in quel tanto di politica che continuava storicamente a esserci nello ‘stato di guerra’: chi agisce politicamente esprime, in ogni caso, anche le ragioni dei tanti che restano passivi, o che al massimo acconsentono in forma di simpatia. Un tale schema di ragionamento, che non distingue sull'essenziale fra tempo di pace e tempo di guerra, ha conservato a lungo la sua validità. Ma oggi le cose stanno diversamente: i rappresentati del tempo della pace diventano gli indifesi del tempo della guerra, sicché nelle forme della guerra non c'è rappresentanza possibile per la popolazione civile, la quale non solo vede i propri figli strappati a forza dalle case e intruppati negli eserciti, come per il passato, ma viene senza mezzi termini trucidata, e funge direttamente da bersaglio.

Potrei anche dirla diversamente: in politica agiscono le dimensioni collettive: per i marxisti le classi sociali, per i nazionalisti i popoli, per i liberali il “Paese”, per gli integralisti la “comunità”, eccetera; le vittime civili della guerra rinviano, invece, a una dimensione totalmente individuale. Chi muore è sempre inesorabilmente connesso alla propria individualità.

In realtà noi, così come i nostri padri e i nostri nonni che hanno vissuto per intero il ‘secolo breve’, siamo rimasti troppo a lungo prigionieri di una riflessione condotta, legittimamente, in ben altro contesto. È noto, ad esempio, che il marxismo classico, da Marx a Lenin, distingueva tra guerra giusta (la guerra dalla parte delle nazionalità oppresse) e guerra ingiusta (la guerra dalla parte degli Stati oppressori). Tale impostazione aveva come principale bersaglio polemico la lettura diplomatica dei conflitti, quella che faceva perno sulla differenza tra aggressore e aggredito. Se l'India - sfruttata, spogliata e calpestata dagli inglesi - si solleva in armi contro l'Inghilterra e conduce una guerra di unificazione e liberazione nazionale, questa sua è una guerra giusta o no? Davvero si dovrà stabilire chi abbia sparato per primo? Chi sia l'aggressore sul campo? L'esempio è di Lenin, ma cose analoghe esistono in Marx ed Engels, tra l'altro proprio sul Risorgimento italiano.

Ma il marxismo classico era andato anche oltre: accanto alla coppia giusto/ingiusto venivano utilizzati anche i termini progressivo/reazionario. La diversità tra le due coppie di opposti risiede nel fatto che la seconda, la coppia progressivo/reazionaria, non postula necessariamente una partecipazione delle classi popolari, del proletariato o dei comunisti. In tale accezione il giudizio si misura più con l'andamento generale della storia che con quello della politica. Ad esempio, Marx parlava della guerra franco-prussiana del 1870 come di una guerra progressiva dal versante tedesco, in quanto atto conclusivo e decisivo dell'unificazione della Germania. La qualcosa, sia detto per inciso, non significava, neppure per Marx, che i proletari dovessero, in quel frangente, attenuare la loro lotta contro Bismarck e il suo governo.

Non serve, però, dilungarsi. Quel che mi preme affrontare è, infatti, l’autentico nodo di fondo, e cioè se sia davvero possibile continuare a ragionare, nelle nuove condizioni determinate dalle guerre del Novecento, con le stesse coordinate di allora. Il punto è che anche nei settori politici che puntano all’uguaglianza tra gli esseri umani e alla fraternità tra i popoli non è maturata con la necessaria nettezza la critica della guerra; non è maturata, cioè, la consapevolezza del fatto che essa non si accompagni più, oggi come oggi, alla politica, ma la sostituisce completamente. La guerra contemporanea, figlia naturale di quelle del XX secolo, toglie terreno, in particolare, alla politica degli oppressi e alla prospettiva medesima della rivoluzione sociale. Di fronte ad Auschwitz, così come di fronte a Dresda o a Hiroshima, non muore "solo Dio". Muore anche la voce umana.

Per carità, un tale ritardo ha molte giustificazioni. Persino un filosofo molto incline al “marxismo umanista” come Ernest Bloch, intervenendo nel 1969 ai seminari estivi a Korçula in lugoslavia legittimava seccamente la violenza quando fosse espressione di una "giusta esasperazione"; e lo faceva, peraltro, poggiando sia su Marx che sul discorso evangelico della montagna: "non sono venuto a portare la pace, ma la spada”. E tuttavia, da studioso rigoroso e acuto, non mancava di storicizzare le proprie affermazioni, così come quelle di Marx. Anzi, proponeva un'esegesi interessante dell'intera dottrina, riannodando a un vecchio motivo leibniziano l'idea di Marx secondo cui la violenza è la levatrice della società, di ogni società che è gravida di una nuova società. Il riferimento è a una lettera di Leibniz del 1702 sulla legge di Mariotte, la legge della pressione del gas su una parete esterna non riscaldata. La quantità di gas che spinge e preme sulla parete esterna contiene già in sé il suo futuro, cioè la sua liberazione; questo futuro si riconosce in quanto pressione sulla parete esterna, producendo come effetto finale l'esplosione della parete stessa. Nel XVIII secolo questa insistenza leibniziana sulla forza del gas divenne la massima di un'utopia di Mercier, che la presenterà come prognosi sociale. Da qui, sostiene Bloch, la mutua Marx, che legge Mercier.

L'interesse dell'esame di Bloch risiede per me in ciò: che tutta la discussione sulla guerra - o sulla violenza, o sulla forza, che restano semplici attenuazioni semantiche, ma non concettuali, del problema -, se la costruiamo a partire da Marx, la scopriamo davvero irrimediabilmente datata.

Certo, potremmo anche non porci affatto il problema e continuare, senza patemi, a cantare la bella canzone di Paolo Pietrangeli, Contessa: "Ma se questo è il prezzo / vogliamo la guerra / vogliamo vedervi / finir sottoterra..."; così come potremmo continuare a figurarci la critica attiva al capitalismo come il formidabile impegno militante e militare di chi procede, come ricordava Brecht, "cambiando più spesso paese che scarpe / attraverso le guerre di classe.." E potremmo anche, per finire, continuare a pensare alla rivoluzione come alla guerra civile che, volente o no, arriverà dentro la guerra imperialista...

Potremmo continuare a pensare tutte queste cose senza accorgerci della loro data, della loro storicità. Senza essere attraversati dal dubbio che invece prendeva un “vecchio giovane” come Franco Fortini quando, a proposito della Prima guerra del Golfo, scriveva (Il Manifesto, 3 settembre 1990): “l'esperienza del secolo prova che la trasformazione leniniana della guerra imperialista in guerra civile è ipotizzabile solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti.” Nel mondo contemporaneo - questa la tesi di Fortini - l'elevato valore tecnologico contenuto nelle moderne dinamiche di guerra non permette più all'uomo di "pensare". Così proseguiva:

 

II possesso e l'uso di strumenti tecnologicamente complessi implica, in chi li guida e li usa, una modificazione analoga a quella che ha portato dall'operaio della catena a quello attuale, giapponese o italiano. Secondo il sarcasmo di Brecht, ai tempi di Hitler, il difetto del carrista e del meccanico era quello di poter pensare. Oggi quel "pensare contro", i generali odierni lo hanno eliminato proprio accrescendo la quota di pensiero applicato all'impiego della tecnologia militare.

Di qui, la proposta, sommessa, dell'arma non violenta, e cioè l'idea "straniante" che le ragioni degli oppressi vadano difese con una pratica di non violenza attiva, impiegando il più basso livello tecnologico degli armamenti per non permettere all'avversario di spostare lo scontro sul piano della moderna tecnologia di guerra, essendo quest'ultima oramai completamente alienata e separata dal pensiero.

Ovviamente non solo di questo si tratta. Valgono anche tutte le considerazioni già avanzate da più parti, per esempio da Bertinotti e da Ingrao, sulla liquidazione del machiavellismo, ovvero sulla necessità di pensare la rivoluzione con una stretta interdipendenza e omogeneità dei mezzi e dei fini; così come valgono le riflessioni sul carattere non meramente "di potere" dello scontro di classe. È questo il succo, tra l'altro, dell'esperienza degli zapatisti nel Chiapas, i quali, non a caso, rivendicano orgogliosamente di non essere un partito/movimento/esercito come gli altri; non lottano per il potere, o per sostituire il governo, ma per qualcosa di diverso (e di più): "per la memoria", ci dicono nel loro modernissimo linguaggio di speranza....

Ma la ragione preminente che mi spinge a salutare con soddisfazione l'avvio di una riflessione impegnata sulla questione della guerra è proprio il tema della storicità. In sostanza, dobbiamo pensare con più coraggio il nostro tempo, cercando di vedere, accanto al vecchio, il nuovo che esso porta con sé: il nuovo sul piano dei rapporti economici, ciò che con termine sintetico, e forse non del tutto efficace, alcuni indicano come “globalizzazione”, e che io definisco con l’espressione totalizzazione del rapporto di capitale; così come il nuovo sul piano dei rapporti sociali, e cioè non soltanto l'estendersi della condizione proletaria a tutti gli angoli del globo ma anche il suo approfondirsi come alienazione compiuta, come mercificazione totale dell'uomo, comprensiva non solo del tempo di lavoro, ma anche del tempo di vita.

I nuovi termini del rapporto di capitale ci consegnano una figura proletaria dispersa e individualizzata, e però completamente tale nella interezza del suo vivere. Il proletario è posto nudo di fronte a se stesso, di fronte al suo residuo umano, a quella parte ultima di sé, scarnificata ma reale, che ancora resiste alla propria metamorfosi in merce. Il conflitto di classe, in tali condizioni, non può che muoversi sui diritti di cittadinanza umana, sulla prospettiva antropologica, e non solo sociale e politica, della dimensione umana,

È per questa ragione di fondo che vale la pena di mettere a tema la critica compiuta della guerra, e di interrogarsi, al contempo, sulla pratica della non violenza attiva. Una pratica di lotta, non certo di rassegnazione; che includa la disobbedienza, il sabotaggio, il danneggiamento se necessario e l’autodifesa se inevitabile, ma che eviti quanto più possibile, appunto come controproducente rispetto ai fini e alle pratiche storicamente maturati, e cioè come antistorico, l'atto violento sugli esseri umani. 

Rino Malinconico – Liberazione, 10 febbraio 2004


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