UNA RIVOLUZIONE ALL’ALTEZZA DEL XXI SECOLO
Il movimento dei movimenti e i sentieri continui della Storia
Nonostante il clamore ancora vivo delle tesi di Francis Fukuyama sulla “fine della Storia” e sull’inizio di una stagione infinita di rigoglio capitalistico, tra gli ultimissimi anni del secolo XX e i primissimi anni del XXI tutti capirono che le vicende umane, le loro difficoltà e i loro grovigli continuavano inesorabilmente in altre forme. La storia era sempre in moto: con le sue contraddizioni, le sue lacerazioni, i suoi contrasti e le sue alternative. E lo stesso Fukuyama dovette rapidamente attenuare l’ottimismo apologetico del capitalismo nei libri successivi al suo fortunato saggio, appunto La fine della storia del 1992.[i]In breve, nel trapasso di secolo s’affacciò di nuovo, piuttosto rumorosamente, il fragore che s’era sentito così spesso lungo il Novecento: la lotta di classe e l’aspirazione alla giustizia sociale. Anzi, in lineare contemporaneità con la contestazione antiliberista, si determinarono notevoli cambiamenti istituzionali soprattutto in America Latina. Si ebbe quasi l’impressione che gli ideali del socialismo avessero trovato in quel continente, al di là della scontata esperienza cubana, una rinnovata e promettente collocazione geografica.
Il momento più carico di futuro s’era già
concretizzato, in effetti, qualche anno prima della sollevazione di Seattle del
1999. Il giorno stesso, 1° gennaio ’94, dell’entrata in vigore del NAFTA
(l’Accordo di libero commercio tra USA, Canada e Messico) si presentò infatti
al mondo la ribellione zapatista nello stato messicano del Chiapas: fu occupata
platealmente, armi in pugno, la città di San Cristobal. Individuando la
globalizzazione liberista come nemica dei popoli (e non solo delle popolazioni
indie), da quel momento le comunità ribelli della Selva Lacandona alimentarono,
sul piano simbolico e culturale, l’insieme delle insorgenze popolari comunemente
indicate come “no-global”.
E analogo clamore ebbe, alcuni anni dopo, l’elezione
(dicembre 1998) di Hugo Chavez alla presidenza del Venezuela, con un programma
fortemente incentrato sui diritti sociali e sulla critica all’onnipotenza del
mercato. Chavez sarà poi riconfermato nel 2000 e ancora nel 2006; e al Social
Forum di Porto Alegre del 2005 annuncerà la svolta bolivariana e socialista di
quella che sarà comunemente chiamata ‘rivoluzione venezuelana’.
Del resto, i contenuti espressi dal movimento dei
movimenti entrarono rapidamente in tutte le piattaforme politiche ed
elettorali della sinistra sudamericana, caratterizzandola come una ‘sinistra di
tipo nuovo’ e portandola alla vittoria quasi ovunque: dal Brasile (2002)
all’Argentina (2003), dall’Uruguay (2004) alla Bolivia (2005), dall’Ecuador
(2006) al Paraguay (2008) al Salvador (2009)... Pur se il terreno programmatico
di quei governi di sinistra rimaneva, nella maggior parte dei casi, rigidamente
ancorato all’antiliberismo, per alcuni di essi – Bolivia, Ecuador e Venezuela –
la parola “socialismo” non era un tabù.
Poi la storia è andata avanti a modo
suo, e la spinta avviata dal movimento dei movimenti si è
progressivamente esaurita. Col deflagrare della crisi economica mondiale del
2008, quel decennio di conflitti e speranze potrà dirsi concluso.
Pongo con nettezza il limite
cronologico del 2008, benché formalmente le iniziative di lotta e di critica di
massa - dai social forum alle contestazioni di piazza - si prolungarono negli
anni successivi. La grande crisi finanziaria - che durerà almeno fino al 2013,
e anzi, porterà taluni suoi effetti fino al 2019 e alla Pandemia di Covid - apriva,
in realtà, una nuova fase storica, segnata non più dalla onnipotenza del
neoliberismo economico e dall’unipolarismo USA, bensì dalla crisi progressiva
della globalizzazione e dal crescere, in sua vece, del multipolarismo
geo-politico. In questo nuovo scenario, la stagione specificamente avviata dall’insorgenza
zapatista e dai fatti di Seattle ha mostrato segni evidentissimi di stanchezza
sia teorica che pratica, e il suo obiettivo esaurimento storico.
Quando nel novembre 2011 - pressoché
contemporaneamente nelle piazze di New York, Madrid, Francoforte, Milano e
altre città - si manifestò la fiammata di Occupy Wallstreet, molti credettero
che la spinta di Seattle ripigliasse vita. Ma il contesto era diverso, segnato,
per l’appunto, dalla realtà livida della crisi economica (da tutti paragonata,
con ragione, a quella del 1929). In quel passaggio, il “99 per cento” della
società globale chiedeva semplicemente che la crisi la pagasse quell’1% che
s’era arricchito nella globalizzazione, in particolare i signori della finanza.
E se è vero che il pluralismo ideologico e l’ampiezza delle mobilitazioni conservavano
taluni elementi della stagione dei social forum, occorre rilevare come il
dibattito interno alla nuova ondata di proteste (conclusasi, del resto, nel
giro di un biennio) fosse obiettivamente meno ricco.
Soprattutto il continente
latinoamericano, che tanto era stato centrale nel movimento no global, rimase
piuttosto freddo nei confronti delle proteste del 2011 – 2013; e comunque non ebbe
l’energia per un ruolo di primo piano. E questo suo sostanziale disimpegno pesò
non solo nelle dinamiche concrete di quella protesta, ma anche sui suoi
contenuti.
D’altronde, sarà proprio l’America
Latina a conoscere, nel corso del secondo decennio del XXI secolo, un evidente
arretramento delle istanze di emancipazione sociale e di ‘piena cittadinanza
umana’ per tutte e tutti. Anzi, la rivisitazione innovativa degli ideali della
rivoluzione e del socialismo – l’“utopia concreta”, di cui parlava Ernst Bloch
-, che proprio lì s’era concretizzata a cavallo tra XX e XXI secolo, si
presenta adesso nuovamente dispersa e affidata alla memoria storica.
Non si è tornato tuttavia, né si potrà tornare, al
punto di partenza. Qualcosa di decisivo, della stagione dei Social Forum e
dell’insorgenza latinoamericana, è destinata a restare. Mi riferisco all’idea
di rivoluzione generata dal movimento dei movimenti, che è stata
impegnativa proprio sul piano teoretico. Nelle sue punte più avanzate – per l’appunto,
l'esperienza Zapatista in Chiapas - ha esplicitato (sia pure con accenti talora
confusi e contraddittori) una visione profondamente originale della stessa
lotta rivoluzionaria, molto diversa dalle esperienze sovietiste del Novecento.
L’uomo
nuovo di Ernesto Guevara
C’è
stata in sostanza, tra la seconda metà del Novecento e l’avvio del XXI secolo, una
progressiva renovatio dell’idea di
rivoluzione che, sia pure contraddittoriamente, con alti e bassi, è comunque arrivata
fino al noi di oggi. Ed è stato in particolare il continente
latino-americano che l’ha recepita con maggiore continuità, e ciò a partire dal
lascito del più grande dei suoi rivoluzionari, Ernesto Guevara.
Come è
noto, egli morì ancora giovane, a 39 anni. Ma non è altrettanto noto che
l'ultimo tratto della sua esistenza intellettuale lo visse esattamente alle
prese con la questione dell'“hombre nuevo”. In una lettera a Fidel Castro del maggio
1965 - pubblicata poi a mo’ di prologo alle sue Preguntas sobre las
enseñanzas de un libro famoso (Manual de economía política, Academia de
Ciencias de la URSS), significative e tuttora misconosciute annotazioni
critiche terminate durante la pausa forzata tra il Congo e la Bolivia, prima in
Tanzania, poi a Praga (da cui anche la dizione, per tali note, di “Quaderni
praghesi”) -,[ii] così
Guevara sottolineava il nodo politico che i rivoluzionari erano chiamati a
sciogliere:
In realtà, il
taylorismo non è diverso dallo stacanovismo, puro e semplice lavoro a cottimo
o, per meglio dire, lavoro a cottimo rivestito di una serie di orpelli … Il
fatto vero è che tutta l’impalcatura giuridico-economica dell’attuale società
sovietica parte dalla Nuova Politica Economica; in essa si conservano i vecchi
rapporti capitalistici, restano le vecchie categorie del capitalismo, esiste
cioè la merce, esiste, in certo modo, il profitto, l’interesse riscosso dalle
banche ed esiste, naturalmente, l’interesse materiale diretto dei lavoratori. A
mio modo di vedere, tutto questo impianto, tutto questo appartiene a quello che
potremmo chiamare, come ho già detto, un capitalismo premonopolistico.
E poi,
efficacemente chiariva:
Il
comunismo è un fenomeno di coscienza, non vi si arriva mediante un salto nel
vuoto, una trasformazione della qualità produttiva o il semplice scontro tra
forze produttive e rapporti di produzione. Il comunismo è un fatto di coscienza
e occorre sviluppare tale coscienza dell'essere umano, di cui l'educazione
individuale e collettiva al comunismo è una parte ad esso consustanziale.[iii]
La questione degli incentivi materiali costituiva, in
sostanza, il principale punto di criticità del socialismo che Guevara aveva
davanti. Nel febbraio del 1964, nell’articolo “A proposito del sistema del
finanziamento di bilancio” pubblicato su
Nuestra Industria, la rivista del Ministero da lui diretto, aveva
scritto:
Stimolo materiale diretto e
coscienza sono termini contraddittori... Il lavoro deve cessare di essere una
penosa necessità per diventare un piacevole imperativo. I nuovi rapporti di
produzione devono servire ad accelerare l'evoluzione dell'uomo verso il regno
della volontà.[iv]
Il punto è che ogni rivoluzione - e ciò vale soprattutto
per una rivoluzione che si prefigga di capovolgere dalle fondamenta non solo il
quadro politico, ma anche gli assetti sociali - si trova davanti gli esseri
umani non come vorrebbe che fossero, ma per come sono stati concretamente
formati nella fase precedente. Nell’articolo
El socialismo y el hombre a Cuba - che nacque in forma di lettera
indirizzata al giornalista Carlos Quijano direttore del settimanale
uruguaiano Morena, e che venne pubblicato sul periodico
“Marcha” di Montevideo il 12 marzo 1965 - Guevara sottolineava come gli
esseri umani si presentino fatalmente, nei rapporti civili e sociali del
socialismo, alla stregua di entità mutile, e cioè come una sorta di “prodotto
non-terminato. Le tare del passato si trasmettono al presente nella coscienza
individuale e c'è bisogno di un lavoro continuo per sradicarle”.
Si tratta, in sostanza, del complesso rinnovamento
della coscienza. Esso postula, da un lato, l'azione della società che promuove
l’educazione diretta e indiretta dei suoi membri – “la società nel suo insieme
deve trasformarsi in una gigantesca scuola", affermava il Che; ma,
dall'altro, presuppone che sia l’individuo stesso a prendersi cura della
propria specifica auto-educazione, cosa che potrà fare solo se progressivamente
maturerà una propria adesione morale e sentimentale al processo rivoluzionario
in corso. Ma non si deve andare con l'educazione in una direzione, e nella
direzione opposta con la politica e l’economia:
Rincorrendo l'illusione di
realizzare il socialismo con l'aiuto delle armi spuntate che ci lascia in
eredità il capitalismo (la merce come cellula economica, il profitto,
l'interesse materiale individuale come leva, eccetera) si può imboccare un
vicolo senza uscita... Per costruire il comunismo, contemporaneamente alla base
materiale bisogna creare l'uomo nuovo.[v]
Il
tema del socialismo come “rivoluzione antropologica”, prima ancora che politica
e sociale, veniva dunque posto. Per costruire il comunismo, contemporaneamente
(e sottolineo l’avverbio) alla base materiale, bisogna creare davvero l'uomo
nuovo. Guevara, in sostanza, individuava il tema dell'essere umano
rinnovato come il vero problema di fondo della trasformazione sociale. Non
la produzione della ricchezza, ma la costruzione di belle persone: questo il
compito essenziale della rivoluzione socialista.
La
Teologia della liberazione
A me
pare evidente che proprio la curvatura antropologica della trasformazione
sociale costituisca il filo rosso che da Guevara arriva fino agli zapatisti
della Selva Lacandona. Mi pare altresì evidente come la congiunzione tra quei
due punti cronologici, oltre che geografici, vada cercata - prima ancora che
nella produzione, indubbiamente ricca, dei marxisti sudamericani – in quella
originalissima esplosione di ribellione e solidarietà che è stata, ed è, la Teologia
della liberazione.
Helder
Câmara, arcivescovo di Recife in Brasile,
indicava nelle drammatiche condizioni di vita delle masse il fondamento
dell’iniziativa sociale della Chiesa in Sudamerica, e la sua stessa complicata
ricerca di una rivoluzione senza spargimento di sangue:
Su 100
brasiliani, 22 soltanto lavorano. Su 100 famiglie che vivono in Brasile, 70 non
ricevono il salario minimo indispensabile. Di 400 milioni di ettari che
rappresentano la somma di 3.800.000 proprietà denunciate in Brasile, circa la
metà, 180 milioni di ettari appartengono all’1% di proprietari. Possiamo
parlare di ordine davanti a un simile quadro? Mantenere questa situazione non
significa mantenere l'ordine ma piuttosto perpetuare il disordine e
l'ingiustizia.
Una
così disperante situazione non la si può contenere nei limiti tradizionali
dell’intervento caritatevole. Impone, al contrario, un intervento profondo
sull’insieme dell’ordine sociale, uno scontro diretto col reticolo di
ingiustizie che lo caratterizza: “Se i cristiani credono, com'è stato detto a
Medellin, alla fecondità della pace per arrivare alla giustizia, essi credono
anche che la giustizia è la condizione per arrivare alla pace”.
In
sostanza, una via diversa dalla tradizione insurrezionalista; e però ugualmente
indirizzata al “cambiamento profondo e rapido […] delle
strutture socio-economiche e politico-culturali”. E in aggiunta, una
rivoluzione che esprimesse pienamente, accanto ai bisogni e alle speranze dei
poveri, lo spirito comunitario della realtà sudamericana:
Quando
noi ci battiamo per una integrazione latino-americana, non lo facciamo per
legare il mercato comune latino-americano né alla superpotenza capitalistica,
né alla superpotenza socialista, che sono entrambi, io lo ripeto, più vicine
l'una all'altra di quanto non si pensi. Si ha un bel dire che io desidero
trasformare il Brasile in una sorta di Jugoslavia o di Cecoslovacchia. Queste
sono affermazioni tanto interessate quanto lontano dalla verità. Secondo il mio
pensiero, espresso più volte, le cose stanno assai diversamente. Io ho detto, e
ripeto, che ciascuno dei modelli socialisti attuali - e ricordo che esistono
dei socialismi inglese, svedese, israeliano, africano e molti altri - non può
essere trapiantato in America Latina. È necessario scoprire modelli appropriati
alla nostra realtà […] Il nostro cammino si trova forse nella linea di un
socialismo che non sia sostanzialmente nelle mani dello Stato o di un partito
unico, ma che salvaguardi la persona e la comunità.[vi]
Armando
Hart Dávalos, forse il più significativo pensatore
socialista cubano (ministro dell’educazione prima, e della cultura poi, dal
1959 al 1997), ha annotato come proprio il ruolo di primo piano assunto dalla
Teologia della Liberazione - una “reinterpretazione o una interpretazione
nuova, se si vuole, del cristianesimo, sorta nelle viscere medesime della
realtà latinoamericana” - richiamasse i marxisti ad un severo esame delle loro
insufficienze. Pur partendo da altri presupposti culturali, essa presentava
profonde affinità con le critiche di Guevara all’esaltazione sovietica delle
forze produttive e al loro presunto primato sulle concrete relazioni
sociali:
La
riflessione sui fondamenti reali dell'influenza del cristianesimo negli strati
popolari dei popoli dell’America Latina, come pure sulle ragioni che lo hanno
tenuto in vita per due millenni, ci deve spingere a studiare l'importanza della
coscienza nella vita sociale e politica. Bisogna valutare la rilevanza dei
fattori soggettivi nelle vicende storiche. Dobbiamo riflettere sulla centralità
del fattore umano tanto sul piano sociale quanto sul piano individuale. Una
rigorosa analisi autocritica degli ultimi settanta anni non può non portarci
alla conclusione che i fattori umani, sociali e soggettivi non sono stati
valutati nel loro giusto valore. La critica che la Rivoluzione cubana mosse
alla pratica socialista negli anni Sessanta girava proprio attorno a questa
sottovalutazione dei fattori soggettivi. La vita ha dimostrato che il Che e
Fidel avevano ragione.[vii]
Ci fu,
in effetti, a partire dagli anni ’60, un intenso spirito di ricerca nelle
comunità ecclesiali. La Teologia della liberazione, presente soprattutto
in Sud America, aveva evidenti collegamenti con la Teologia della speranza
di Jurgen Moltmann, che nello stesso periodo proponeva in Europa una
escatologia cristiana permeata, appunto, dal “pensiero della speranza”, sulla
scorta delle tesi sulla Teologia del Mondo di Johann Baptist Metz,
nonché della ricerca filosofica di Ernst Bloch e del suo fondamentale Principio
Speranza.
Fu una
riflessione che per una determinata fase si intrecciò anche col dibattito più
propriamente politico sullo sviluppo e il sottosviluppo. Ma ad alimentarla in
America Latina fu soprattutto una più coerente declinazione umanistica di Dio:
Dio tenderebbe a farsi ‘realtà terrena’; e di converso non dovrebbe essere più
collocato in uno spazio di trascendenza puro, senza le ‘tracce della terra’.
Qui
importa, tuttavia, non tanto l’arditezza delle tesi prettamente teologiche,
quanto piuttosto la loro ricaduta storica. Per dirla con Armando Hart: proprio la
grande influenza negli strati popolari di quella “nuova interpretazione” del
cristianesimo. D’altronde, si volsero alla Teologia della Liberazione settori
importanti del clero. Anzi, la Teologia della liberazione prese le mosse
proprio da due Conferenze ufficiali della Chiesa latinoamericana: l’incontro
ecclesiale di Chimbote (Perù) del luglio 1968, e soprattutto la Conferenza
episcopale di Medellin dell’agosto/settembre 1968, inaugurata da Paolo VI.
Partendo
da due domande provocatorie - «Dove è presente Dio oggi?», «Chi sono suoi
figli prediletti?» -, lo ‘spirito di Medellin’ si concretizzò in una
declinazione fortemente operativa dell’enciclica Populorum Progressio:
“La situazione sociale richiede una presenza fattiva della Chiesa che vada
oltre la promozione della santità personale con la preghiera e i sacramenti”.
La sollecitazione fu di assumere il concreto dato storico dell’America Latina -
ovvero “Gesù Cristo che vive e che muore nei nostri fratelli e sorelle
bisognosi” - come punto focale dell’attività pastorale. Di conseguenza, il
metodo diveniva quello del “vedere - giudicare - agire”.[viii]
In
quei passaggi, emergeva con sorprendente naturalezza una critica frontale alla
“cultura dello sviluppo”. Il sacerdote Gustavo Guiterrez, in quegli anni
docente di teologia all'Università cattolica di Lima, così chiariva la
differenza tra la cultura dello sviluppo e la cultura della liberazione:
Vi
sono state recentemente molte discussioni sullo sviluppo e sull’aiuto ai paesi
poveri; vi è stato il tentativo di tessere una specie di mistica intorno a
queste parole […] I cambiamenti proposti evitavano
accuratamente di attaccare i potenti interessi economici internazionali e
quelli del loro naturale alleato, le oligarchie nazionali. Lo sviluppo divenne
così sinonimo di riformismo e modernizzazione: misure timide, inefficaci a
lunga scadenza, spesso false, infine controproducenti nei riguardi di una vera
trasformazione […] La parola liberazione è quindi più adeguata ed esprime
meglio l'aspetto umano del problema […] Quando si definiscono i paesi poveri
“oppressi e dominati”, la parola liberazione è appropriata.[ix]
La
curvatura antropologica della rivoluzione
È
stato Pablo Neruda a dire che Che Guevara e Fidel Castro rappresentano
innanzitutto la dignità dell'America Latina. Vorrei richiamare l'attenzione su
questa parola: dignità. In effetti, è la parola che maggiormente ha
declinato, in America Latina, ciò che io chiamo ‘curvatura antropologica’ della
rivoluzione e del socialismo.
Il
teologo Leonardo Boff, ponendo Francesco d'Assisi come riferimento fondamentale
della Teologia della Liberazione, distingueva tra l’amore affettivo nei confronti dei poveri (“questo significa più che
compassione; implica accettarli come persone”) e l’amore effettivo che comporta un “guardare alla società e alla storia
partendo dalla prospettiva dei poveri, dalle loro lotte per la vita e per la
dignità. Partendo dalla loro causa si scopre l'iniquità del sistema dominante,
la capacità di resistenza dei poveri, la dignità della loro pretesa a una
società nuova”.[x]
Si
potrebbero dire molte cose di su questo passo. Qui mi limito a elencarne due.
il
primo è il concetto di povero. Povero non è la stessa cosa di proletario. È
qualcosa di meno dal punto di vista analitico, dal punto di vista della
tensione alla totalità dialettica nella quale siamo inseriti. Ma, allo stesso
tempo, è qualcosa di più sul piano dell'evidenza e della dinamica esistenziale
delle persone; che è anche, contemporaneamente, dinamica sociale. Il proletario
si ribella (quando ci riesce). Il povero grida (quando non ce la fa più).
Una
rivoluzione che ha davanti a sé anzitutto la visione degli assetti sociali
osserva la ribellione del proletario e ragione sulle dinamiche della lotta di
classe. Una rivoluzione che invece abbia davanti a sé, come suo architrave
essenziale, l'umano che si rinnova, e anzi l’umano che si costruisce forse per
la prima volta da quando noi siamo su questa terra, espungendo totalmente la
propria ferinità, ebbene questo tipo di rivoluzione dovrà innanzitutto
ascoltare il grido e guardare la sostanza corporea che il povero incarna. E
farsi attraversare da tale grido e da tale sostanza.
È una
prospettiva che si situa ben al di là della più consolidata tradizione
novecentesca. Come efficacemente annota il sociologo John Holloway, che vive e
lavora in Messico fin dagli anni ’90, “durante l'ultimo secolo la parola chiave
per la sinistra è stata “tradimento”, un governo dopo l'altro veniva accusato
di tradire gli ideali di quelli che lo appoggiavano … invece di ricorrere a
tanti tradimenti in cerca di una spiegazione, forse avremmo bisogno di
riesaminare l'idea stessa che la società possa essere trasformata conquistando
il potere dello Stato”.[xi]
Al di
là delle fondate obiezioni critiche che gli si possono muovere – dal mio punto
di vista, ad esempio, sono piuttosto evidenti, nella scrittura di Holloway, sia
la sovrapposizione confusa di “produzione” e “proprietà” e sia l’incomprensione
del ruolo attivo degli Stati nelle dinamiche della globalizzazione, come pure
l’interpretazione riduttiva dei marxisti del Novecento, tutti considerati, in
blocco, dentro la logica del “realismo del potere” –, egli ha perfettamente
ragione quando individua come corposissima insufficienza del Novecento “l’idea
che la rivoluzione significa prendere il potere per abolire il potere”.
Nonostante le mie riserve su svariati aspetti dei suoi ragionamenti, condivido
l’essenziale della questione, e cioè il fatto che “l'unico modo in cui si può
immaginare oggi la rivoluzione è la dissoluzione del potere, non la sua
conquista”.[xii]
Da
questo punto di vista, diviene particolarmente significativo proprio l’altro
aspetto del passo di Boff: appunto la parola “dignità”. Ripetuta più volte.
Dignità, memoria, speranza: sono le parole squisitamente umane cui ci ha
abituato anche la prosa Zapatista. Di fatto, i loro testi pongono costantemente
la questione della immissione ariosa della moralità umana nelle vicende della
politica. Il “subcomandante insurgiente” Marcos, in uno dei suoi testi più
noti, così presentava, col suo stile fiabesco, questa prioritaria esigenza di
moralità:
Il
vecchio Antonio ascolta in silenzio e infine, supponendo che il tema non gli
interessasse, mi accomodo per dormire. Tra i sogni vedo il vecchio Antonio
prendere il mio quaderno e scrivere qualcosa. La mattina, dividiamo la carne,
dopo la colazione, e ciascuno prende la sua strada. Arrivo all’accampamento,
faccio rapporto al comando e mostro il diario per far vedere quello che è
successo. “Questa non è la tua grafia”, mi dicono mostrandomi un foglio del
quaderno. Ahi, sotto quel che io avevo annotato, il vecchio Antonio aveva
scritto, in grandi lettere: “Se non puoi avere la ragione e la forza scegli
sempre la ragione e lascia che il nemico si tenga la forza. La forza può
vincere in molti combattimenti, ma in tutta la lotta solo la ragione può
prevalere. Il potente non potrà mai cavare la ragione dalla sua forza, noi
sempre potremo ottenere la forza dalla ragione”. E più in basso, in lettere
molto piccole: “Felici feste”.[xiii]
Nella
dialettica tra ragione e forza, entrambe sottoposte alla scelta umana, c’è la
priorità assoluta dell’una rispetto all’altra. È però evidente che qui Marcos
non sta parlando della ragione in senso illuminista: la ragione diviene
prioritaria non in sé, ma perché apre al tema fondativo della rivoluzione, e
cioè alla condizione propriamente umana da recuperare, o meglio: da costruire
ex novo, nel farsi medesimo dell'azione politica e della trasformazione
sociale. Non può stupire, perciò, l'affermazione inaspettata che la lotta
zapatista non è finalizzata alla conquista del potere: “Noi non lottiamo per il
potere ma per la memoria, per la dignità”. L’obiettivo vero è, insomma,
qualcosa di molto più profondo della stessa trasformazione sociale. Io lo indicherei
con l'espressione “autocostruzione dell'umano”.
Propongo,
al riguardo, un passo da uno dei comunicati dell’EZLN (l’esercito zapatista di
liberazione nazionale) datato 1994, che credo valga la pena leggere con
attenzione:
Allora
quel dolore che ci univa ci fece parlare, e riconoscemmo che nelle nostre
parole c'era verità, sapemmo che nella nostra lingua non abitavano solo il
dolore e la pena, riconoscemmo che c'è ancora speranza nei nostri cuori.
Parlammo tra di noi, guardammo dentro di noi e dentro la nostra storia: vedemmo
i nostri antenati più antichi soffrire e lottare, vedemmo lottare i nostri
nonni, vedemmo i nostri padri con la furia nelle loro mani, vedemmo che non ci
avevano tolto tutto, che avevamo la cosa più preziosa, quello che ci faceva
vivere, quello che faceva sì che il nostro passo si levasse al di sopra delle
piante e degli animali, quello che faceva sì che la pietra stesse sotto i
nostri piedi, e vedemmo, fratelli, che tutto quello che avevamo era la dignità,
e vedemmo che era una grande vergogna averla dimenticata, e vedemmo che la
dignità poteva far diventare gli uomini di nuovo uomini, e la dignità
ricominciò a parlare nei nostri cuori, e fummo nuovi un'altra volta, ed i
morti, i nostri morti, videro che eravamo un'altra volta nuovi e ci
richiamarono di nuovo alla dignità e alla lotta.[xiv]
La
dignità come “progetto di futuro”
Nella
seconda metà del Novecento, troppo spesso le repubbliche sudamericane si sono
caratterizzate, come dice il filosofo e sociologo argentino Atilio Boron,[xv] per
“l’odore di farsa” rispetto alla democrazia (e le sinistre sudamericane - io mi
permetto di aggiungere - per un simmetrico odore di farsa rispetto all’ideale
del socialismo). Mi pare, però, che una via nuova sia stata tentata, proprio in
quel continente, negli ultimi decenni.
Io non
ho molto da precisare al riguardo, perché soprattutto le parole degli zapatisti
non hanno bisogno di commento. Dico solo che sbaglieremmo a vedere l’insistenza
sulla “dignità” come una semplice intenzione morale. O, peggio, come una
semplice espressione di denuncia.
C'è
infatti un progetto di futuro nella parola dignità, nella parola memoria, nel
grido, nella consistenza dei corpi che stanno intorno a noi e camminano
malcerti su questo pianeta. E che si lasciano attraversare dallo smarrimento
nel tempo di vita ancor più che nel tempo di lavoro, e nondimeno stringono i
denti; e che cercano di passare i confini portando addosso non solo il fardello
triste del loro vissuto, ma anche l'azione attiva della speranza. Io tutto
questo lo chiamo socialismo, o anche comunismo. Esattamente nel senso indicato
da Marx: come movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. La
“Seconda Dichiarazione di La Realidad”, dell'agosto 1996, lo proclamava in modo
straordinariamente eloquente.
Quel
documento concluse un importante incontro internazionale, tenutosi appunto nel
villaggio di La Realidad, nel Chapas zapatista, con la partecipazione di circa
3500 persone provenienti da 41 paesi del mondo. In quella sede si decise, per
impulso soprattutto dell’EZNL, di dar vita a “una rete intercontinentale di
resistenza” e di costruire “una rete di comunicazione alternativa” contro il
neoliberismo e per l'umanità.
Si
assunsero la parola, il confronto e l’ascolto come basi fondative della
battaglia per la democrazia, la libertà e la giustizia: “Questa rete
intercontinentale di resistenza non è una struttura organizzativa, non ha un
centro direttivo né decisionale, non ha un comando centrale e nemmeno
gerarchie. La rete siamo tutti noi che parliamo e che ci ascoltiamo”.[xvi]
Si
proclamò, di fatto, una inedita idea di rivoluzione: come opera di convincimento,
prima ancora che come azione di rovesciamento dei poteri costituiti. In
sostanza, il “poter fare” e la potentia delle classi popolari (la
stragrande maggioranza degli esseri umani), intesi come attività essenzialmente
dialogica, come processo di auto-riconoscimento; e perciò, per dirla con Marx,
come un movimento reale che la rivoluzione la fa - e solo così può farla - non
solo camminando ininterrottamente nelle vicende storiche concrete, ma
soprattutto muovendosi nella memoria e nell'esistenza specifica degli esseri
umani.
In una
intervista alla rivista italiana Limes, dell’aprile 1997, Marcos così
sintetizzava la differenza tra l’EZLN e l’ERP (Esercito popolare
rivoluzionario), un gruppo guerrigliero di ispirazione marxista che operava,
allora, nel nord del Messico:
I loro
progetti sono completamente diversi dai nostri. Loro vogliono prendere il
potere, e la lotta armata è lo strumento che intendono utilizzare per
raggiungere questo obiettivo. Noi non vogliamo il potere, scegliamo la parola e
la politica come strumento di lotta. Le armi ci sono servite solo per
conquistare uno spazio, per diventare visibili.[xvii]
Non si
tratta affatto di un orizzonte meno radicale. L’obiettivo dell’EZNL è anche
una “società di liberi ed uguali”, ciò che nel Novecento si è chiamato
“socialismo” e “comunismo”. Ma con un corposissimo di più: la società
nuova dei “liberi e uguali” potrà nascere solamente ponendosi, fin da subito,
al servizio di una umanità rinnovata. Anzi, essa comincia a vivere proprio con
‘la presa di parola’ e col continuo moltiplicarsi delle voci. Non è, perciò,
“l’uomo nuovo” che deve emergere dalla “nuova società”, ma è la nuova società
che si costruisce dentro il rinnovarsi degli esseri umani.
Per
meglio intendere, per meglio rendersi conto di quanto sia profondo lo
spostamento di ottica rispetto alla tradizione novecentesca, si legga
direttamente il preambolo del documento votato a La Realidad nel 1996:
Fratelli
e sorelle di Africa, Asia, America, Europa e Oceania,
considerando
che noi tutti e tutte siamo contro l'internazionale della morte, contro la
globalizzazione della guerra e degli armamenti.
Contro
la dittatura, contro l’autoritarismo, contro la repressione.
Contro
le politiche di liberismo economico, contro la fame, contro la povertà, contro
il furto, contro la corruzione.
Contro
il patriarcato, contro la xenofobia, contro la discriminazione, contro il
razzismo, contro il crimine, contro la distruzione dell'ambiente, contro il
militarismo.
Contro
la stupidità, contro la menzogna, contro l'ignoranza.
Contro
la schiavitù, contro l'intolleranza, contro l'ingiustizia, contro
l’emarginazione, contro l'oblio.
Contro
il neoliberismo.
Considerando
che noi tutti e noi tutte siamo:
per
l'internazionale della speranza, per la pace nuova, giusta e degna.
Per la
nuova politica, per la democrazia, per la libertà politica.
Per la
giustizia, per la vita e il lavoro degni.
Per la
società civile, per i pieni diritti delle donne sotto tutti gli aspetti, per il
rispetto verso gli anziani, i giovani e i bambini, per la difesa e la
protezione dell'ambiente.
Per
l'intelligenza, per la cultura, per l'educazione, per la verità.
Per la
libertà, per la tolleranza, per l'inserimento nella società, per la memoria.
Per
l'umanità.
Dichiariamo:[xviii]
Proprio
qui, in questa orizzontalità straniante del linguaggio e in questa fisicità
plurale di identità e obiettivi, risiede, a mio avviso, il portato di novità
venuto dalle spinte più consapevoli e innovative del XX secolo: prima dalla contestazione e dal ribellismo degli
anni Sessanta e Settanta, e più tardi dalle tante
lotte per la dignità nell'America Latina, da Cuba al Venezuela, dai sem terra
agli zapatisti. Al di là degli esiti storici di quelle idee e di quelle
specifiche vicende, l’orizzonte della rivoluzione ne è uscito profondamente cambiato
rispetto al Novecento. Ora la trasformazione rivoluzionaria della società e
l’oltrepassamento del capitalismo sono fatalmente chiamati a configurarsi come percorsi
antropologici, prima ancora che politici ed economici. E del resto,
l’istanza dell’essere umano rinnovato la stiamo vedendo confusamente
emergere non soltanto in America Latina, ma anche ad altre latitudini: per
esempio, nella esperienza del confederalismo democratico che tuttora resiste
nel Rojava, al confine tra Siria e Turchia.
Ma
adesso? È ancora forte, oggi come oggi, l’impulso umano alla solidarietà e alla
condivisione conviviale – e non solo egualitaria - della vita?
Io non
so rispondere. Resto convinto, tuttavia, che non dovremo aspettare molto per
vedere se l’onda del cambiamento durerà in questa prima metà del XXI secolo; e
se darà vita, per davvero, a una più compiuta idea di rivoluzione e socialismo.
Rino Malinconico
NOTE
[i]
Dopo il suo famoso scritto (in italiano, F. Fukuyama, La fine della storia e
l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992) il politologo americano mitigò le sue
tesi ne La grande distruzione. La natura umana e la ricostruzione di un
nuovo ordine sociale (Baldini
& Castoldi, Milano 2001) e ancor più in L'uomo oltre l'uomo. Le
conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano 2002.
[ii]
“Viste le specificità del testo, Apuntes criticos a la Economía Política
[Note critiche a L’Economia Politica], si è deciso di inserire a mo’ di
Introduzione un frammento di una lettera inviata dal Che a Fidel nell’aprile
1965, prima di partire per il Congo, nella quale precisa, tra altri aspetti, le
sue “ultime riflessioni” su Politica ed Economia a Cuba. Ne sono rispettati lo
stile e la forma” [Nota dell’Editore cubano].
[iii]
Cfr. Ernesto Che Guevara, Apuntes críticos a la Economía Política, en colaboración con el Centro de Estudios
Che Guevara, Ocean Sur, La Habana 2006.
[iv]
L’articolo su Nuestra Industria del 1964 può essere letto, nelle sue
parti essenziali, nell’ampia biografia del Che
redatta da Paco Ignacio II Taibo. Cfr. P. I. Taibo II, Senza perdere la tenerezza, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 506.
[v]
L’articolo-lettera El socialismo y el
hombre a Cuba si può leggere in Ernesto
Che Guevara, Scritti scelti, a cura di R. Massari, Erre Emme, Bolsena
1993.
[vi]
Il discorso pronunciato da Câmara alla facoltà di ingegneria di Belo Horizonte
il 15 settembre 1968 è in AA.VV., America Latina: la chiesa si contesta,
a cura di R. Magni e L. Zanotti, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 82 - 91.
[vii]
Cfr. A. H. Dávalos, Cuba, una cultura de liberaciόn. Selectiόn de escritos
1952 – 2016, Tomo 5, Volumen I “Revoluciόn y Cultura”, Letras Cubanas, La
Habana 2018, pp. 286 – 287.
[viii]
Per approfondire, cfr, S, Scatena, In populo pauperum. La Chiesa
latinoamericana dal Concilio a Medellín (1962-1968), Il Mulino, Bologna
2008.
[ix]
Cfr. G. Guiterrez, “Appunti per una teologia della liberazione”, in AA. VV., Religione
oppio o strumento di liberazione?, Mondadori, Milano 1972, pagine 38–41.
[x]
Cfr. L. Boff, Una prospettiva di
liberazione. La teologia, la Chiesa, i poveri, a cura di E. Balducci,
Einaudi, Torino 1987, pp. 166 e sgg.
[xi]
Cfr. J. Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, a cura di
M. Calabria e R. Mordenti, Ediz. Intra Moenia, Napoli 2004, p. 21.
[xii]
Ibidem, p. 33.
[xiii]
Cfr. Subcomandante Marcos, La quarta guerra mondiale è cominciata, il
manifesto, Roma 1997, p. 46.
[xiv]
Cfr. EZLN, 1994 -2000 Documentos y
comunicados, 4 voll. Era, Mexico, vol. I p. 122.
[xv]
Cfr. A. Boron, “El socialismo del siglo XXI: breves notas sobre algunas
experiencias recientes, y otras no tan recientes, de América Latina”, in AA.
VV. Reinventar la izquierda en el siglo XXI, Universidad Nacional de
General Sarmiento, Buenos Aires 2014.
[xvi]
La Dichiarazione si può leggere in appendice a R. Báez, Messico zapatista,
a cura di R. Bugliani, Editori riuniti, Roma 1997, pp. 144 – 147.
[xvii]
In R. Báez, Messico zapatista, cit, p. VIII.
[xviii]
In appendice a R. Báez, Messico zapatista, cit. p. 144.
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