PER UNA NUOVA STAGIONE POLITICA IN CAMPANIA

Si può leggere qui di seguito, la relazione introduttiva del XII Congresso Regionale del Partito della Rifondazione Comunista, svoltosi a Pagani (SA) il 6 settembre 2025. Dopo un giorno di intenso dibattito il Congresso ha chiuso i lavori votando all'unanimità i nuovi organi dirigenti del  PRC della Campania e un breve documento politico che richiama l'insieme delle sollecitazioni già contenute nella relazione. 

Poiché questa relazione affronta questioni generali e non solo campane, e non solo immediate ma anche di prospettiva, è una lettura che potrebbe dire qualcosa, e forse più di qualcosa, anche a chi non abbia alcun interesse per una forza politica come Rifondazione Comunista. 

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     XII Congresso Regionale del Prc della Campania - 6 settembre 2025

RELAZIONE INTRODUTTIVA

 

Care compagne e cari compagni,

permettetemi di prendere le mosse, per questa relazione, da alcune considerazioni di ordine generale e di esprimere con nettezza un mio fermo convincimento. Che è il seguente: viviamo in un tempo che non ci consente più di utilizzare alcune decisive categorie del XX secolo. Anzi, siamo chiamati a ripensare proprio l'insieme delle coordinate con le quali gli esseri umani guardano al mondo. E per la verità siamo obbligati a riscrivere anche i paradigmi interpretativi con cui noi comunisti ci autodefiniamo. In sostanza, per come la vedo io, non possiamo più pensarci solamente come “quelli della questione sociale”: oggi come oggi, dobbiamo pensarci anche come “quelli della questione ambientale”, e soprattutto come quelli che affrontano i temi squisitamente antropologici della condizione umana. E la stessa prospettiva nostra non può neppure essere semplicemente quella di una diversa società, bensì contemporaneamente anche quella di una diversa umanità.

 

 

L’AGIRE POLITICO NEL NUOVO STADIO DELLA MODERNITÀ

 

L’epoca che si è aperta alcuni decenni fa con la drastica chiusura di ciò che Eric Hobsbawm chiamava “secolo breve” impone, in effetti, una connessione strettissima di trasformazione sociale e trasformazione umana, per cui l'idea novecentesca dei due tempi – prima la trasformazione della società e poi la trasformazione della umanità - va decisamente archiviata. Si potrebbe addirittura sostenere che una delle condizioni indispensabili del cambiamento sociale, della prospettiva socialista per la quale ci battiamo, sia proprio il crescere di una nuova umanità, con nuovi atteggiamenti e nuovi valori. Detto ancora più chiaramente: oggi siamo chiamati, e persino obbligati, a pensare la politica in maniera orizzontale e non verticale, e cioè come dinamiche plurime di auto-organizzazione piuttosto che come dinamica univoca di organizzazione. La qual cosa significa che va superata anche la distinzione, tipica del Novecento, tra avanguardie e masse.

In sostanza, la funzione storica dei comunisti, non può più essere quella di “guidare i processi”, quanto piuttosto di accompagnare con energia e intelligenza l'insieme della vivacità sociale. Penso, cioè, che dobbiamo sostenere anzitutto le dinamiche di autorganizzazione della società e il protagonismo di massa, sapendo che acquistano significato, molto più che in passato, esattamente parole come “democrazia diretta” e “partecipazione”. Proprio di tali parole si sostanzia, dovrebbe sostanziarsi, la nostra idea di comunismo.

Ma assumere come idea-forza la dimensione orizzontale e non verticale della politica implica che la stessa struttura organizzativa della forma-Partito vada profondamente ripensata. Come pressoché tutte le formazioni politiche dell’attuale sinistra di alternativa, Rifondazione Comunista si presenta ancora con le caratteristiche di un partito novecentesco, e questo non è un bene perché spinge facilmente ad autentici cortocircuiti. Succede, ad esempio, che finanche i compagni e le compagne più generosamente militanti e attivi nella difesa dei diritti e dei grandi valori della pace e della solidarietà si pensino, quasi senza accorgersene, come “quelli della politica”, riproducendo, benché su altro versante, la stessa logica della politica come sfera separata che è tipica della cultura borghese. Ma per un comunista, per noi comunisti, la politica non può essere un contesto separato dalla società. E meno che mai un contesto sovrapposto. E del resto, gli stessi comunisti del Novecento si appassionarono (purtroppo con non poche confusioni e contorsioni) soprattutto alla trasformazione dei rapporti sociali (o alla rivoluzione, se si preferisce), che è un processo essenzialmente sociale e culturale; e che proprio perché è sociale e culturale può ricomprendere in sé anche lo spazio dell’economia e della politica.

Ma dobbiamo saper trarre con coerenza le implicazioni teoriche di questa caratterizzazione eminentemente sociale che, seppure contraddittoriamente, ci qualifica tuttora (e che, anzi, dovrebbe linearmente qualificarci). Si tratta, in poche parole, di far vivere dentro di noi una sorta di rivoluzione copernicana: non è il mondo che deve girare intorno a noi e ai nostri ideali, quanto piuttosto siamo noi, con i nostri ideali – l'uguaglianza delle condizioni sociali, la piena libertà dei singoli di vivere le proprie inclinazioni, la cooperazione sociale come regola del vivere civile -, che dobbiamo muoverci dentro la società, tirando quanto più possibile in avanti gli elementi di prefigurazione che già vi esistono, indipendentemente da noi, come potenzialità.

 

 

LA DICOTOMIA DI GOVERNANTI E GOVERNATI

 

La società di oggi è caratterizzata da grandi disparità sociali e dall’egoismo imperante; ma è anche una società in cui la cultura del dono e la pratica del mettere gratuitamente a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze sono enormemente diffusi. Come sono diffusi l'impegno a sostegno dei processi collettivi, l'attività di solidarietà e l’aspirazione alla giustizia sociale. Non è vero che ci sono soltanto “loro” a muoversi nel nostro tempo, cioè le borghesie di varia gradazione e i reazionari di varia foggia. Ci sono anche i popoli e ci sono le comunità, e ci sono gli individui solidali che si muovono. Qualche decennio fa si diceva: “loro: l'1% della società; noi: il 99%”. Si è interpretato largamente quello slogan in termini economicisti, cioè con riferimento esclusivo alla gerarchia della ricchezza. E certamente quella frase indicava anche questo. Ma io credo che indicasse anche qualcos'altro, e cioè che di fronte alla pletora di funzionari grandi e piccoli della politica e degli affari c’è un universo di persone comuni che o è già effettivamente in marcia o è comunque disponibile a muoversi sui grandi temi della pace, dei diritti, dell’ambiente e delle solidarietà.

È una linea di frattura che forse consideriamo poco, e che invece, in questa nuova epoca storica, assume molta più rilevanza che in passato. Si consideri che un sommario conteggio delle rappresentanze istituzionali in Italia - tra parlamento, consigli regionali e consigli comunali – dà già la cifra delle decine di migliaia di persone; e se a questo dato aggiungiamo le molteplici postazioni di collegamento e collaborazione istituzionale si arriva facilmente alle centinaia di migliaia. Ecco: nel sistema della democrazia rappresentativa, della democrazia delegata, c'è anzitutto un attivismo politico di questo tipo, un attivismo che declina la politica appunto come professione e come possibile mestiere, e comunque come possibile ascensore sociale contraddistinto dai valori, intrinsecamente borghesi, del prestigio, del potere e della ascesa economica. Ed è proprio questo spazio di pratiche specifiche e territorialmente articolate che alimenta, per obiettive ragioni strutturali, l’ideologia della politica come entità e come pratica separata dal resto della società, costruendo una linea di divisione flessibile e però resistentissima tra governanti e governati.

Non vorrei essere frainteso: la principale linea di frattura della società capitalistica, anche della società capitalistica avanzata, ruota comunque attorno alla distribuzione della ricchezza, e soprattutto attorno all'appropriazione del lavoro altrui. E anzi, oggi come oggi, la dinamica di alienazione e appropriazione descritta da Marx ed Engels centocinquanta anni fa non è neppure più misurabile con la pura cronologia del tempo di lavoro, ma assume direttamente in sé i tempi di vita e la qualità dell'esistenza. Bisogna tuttavia cogliere come sia soprattutto la linea di frattura che si determina sul versante della politica a presentarsi oggi in termini onnicomprensivi: nel senso che essa ricomprende, nella disparità di potere, anche le disparità economiche e di esistenza complessiva delle persone. In altri termini, è proprio nella dicotomia governanti/governati che possiamo rinvenire con maggiore immediatezza l’insieme delle contraddizioni sociali.

Io penso perciò, e  voglio dirlo con la necessaria brutalità, che se noi riuscissimo a marcare una presenza anche nello spazio della dicotomia tra governanti e governati sarebbe una cosa buona. Anzi, dovremmo cercare di avere rappresentanze istituzionali a tutti i livelli, superando con intelligenza le rigide barriere frapposte dalle leggi elettorali, barriere costruite proprio per bloccare le soggettività politiche antagoniste. Ma attenzione: se noi ci proiettassimo in questa direzione semplicemente come “quelli della sinistra più coerente” del contesto intrinsecamente separato della politica, ebbene saremmo molto al di sotto delle necessità di questa fase storica, che (lo ripeto) impone di pensare in maniera diversa anche l'identità comunista e la stessa pratica della rivoluzione socialista. I comunisti, in breve, possono attraversare sì le istituzioni della democrazia delegata, ma solo mantenendo ben ferma la consapevolezza che si muoverebbero su un terreno costitutivamente ostile per chi propugna la democrazia diretta e l’autorganizzazione della società. Il che significa che la presenza istituzionale va utilizzata essenzialmente come tribuna di denuncia e come strumento del più complessivo conflitto sociale sul terreno dei diritti civili e sociali delle persone, delle solidarietà tra i popoli e le comunità e della vivibilità concreta dei territori.

 

 

LA GUERRA PERMANENTE E IL DISASTRO AMBIENTALE

 

La presenza comunista nelle istituzioni della democrazia delegata sarebbe oggi ancora più utile che in passato, poiché questo nostro mondo è divenuto molto più complicato di quello che abbiamo conosciuto fino a qualche decennio fa. La guerra mondiale a pezzi è, infatti, un'assoluta novità: proprio perché non è una guerra con contorni chiari e definiti. È proprio l’espressione “a pezzi”, in combinato disposto con l’aggettivo “mondiale”, che va capita in tutta la sua profondità. Significa, in breve, che le dinamiche della politica e le dinamiche della guerra si intrecciano continuamente fra loro e si alimentano a vicenda, divenendo preminenti ora le une e ora le altre in un unico, ininterrotto percorso storico.

La stessa economia capitalistica tende a configurarsi non solo come crescita dei valori di partenza e prosaica ricerca del profitto ma soprattutto come mobilitazione produttiva dell’intero corpo sociale a sostegno della dinamica di politica e guerra. E la stessa politica, da semplice dialettica tra le parti e contrasto tra disparate esigenze, tende a trasformarsi in un sempre più articolato sistema di irreggimentazione autoritaria dell’intera società. La nuova giovinezza del fascismo e il crescere impetuoso delle pulsioni nazionaliste e razziste in tante parti del mondo, Italia compresa, si spiega esattamente con la caratteristica di fondo nell’epoca che stiamo vivendo, che è appunto quella dello stato di guerra permanente. Guerra permanente: non solo come luogo delle efferatezze e delle brutalità più orrende, come testimonia il genocidio di Gaza, ma proprio come asse portante della politica, della cultura, dell’economia e delle relazioni giuridiche e sociali. Per l’appunto: la guerra mondiale a pezzi.

Peraltro l'epoca in cui viviamo non è caratterizzata solo dalla guerra permanente e dalla connessa trasformazione autoritaria della vita politica, con la tendenza sempre più evidente alla  liquidazione della stessa democrazia formale che ha caratterizzato il tempo nella modernità avanzata. Siamo anche al più grave e generalizzato disastro ambientale della storia umana e a un'emergenza climatica del tutto fuori controllo. E l’inquinamento ambientale e i cambiamenti climatici si intrecciano, come fonte di tragedie, con la stessa guerra mondiale a pezzi, alimentando anche per tale via il peggioramento obiettivo delle condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione umana e il disordine crescente delle relazioni internazionali.

Di fatto, la guerra mondiale a pezzi e il disastro ambientale e climatico  hanno rapidamente portato a compimento i tre grandi processi epocali che chiudevano il Novecento; ovvero, nell’ordine; 1) la rapida dissoluzione del mondo unipolare avviatosi più di quarant'anni fa col crollo del blocco sovietico e la evidente vittoria dell'Occidente nella guerra fredda; 2) il disfacimento irreversibile della globalizzazione capitalistica dei mercati, logorata già nei primi anni Settanta dagli shock petroliferi e dal venir meno degli accordi di Bretton Woods (che equiparavano il dollaro al valore dell'oro) e poi acceleratasi a dismisura con la crisi economica e finanziaria del 2008; 3) l'emergere impetuoso di un'articolata seconda linea di potenze economiche e militari (alcune con dotazioni nucleari) dietro le superpotenze, non controllate e non controllabili né dal contesto euroatlantico (il quale peraltro sta conoscendo difficoltà di tenuta di ogni tipo) né dalla Russia e né dalla Cina.

Ovviamente nell’ambito delle relazioni internazionali c’è anche, sia da una parte che dall’altra, l’insistente spinta verso fronti unitari di alleanza economica, politica e militare. Ma a me pare preminente, e ritengo che lo sarà anche nel breve e medio periodo, soprattutto l’aspetto del disordine. Nei nostri discorsi e nelle nostre analisi dovremmo evitare di sottovalutarlo. La seconda linea di potenze è costituita, infatti, da Stati smaniosi di concretizzare ciascuno le proprie esclusive aree di influenza. Nel loro assieme, essi alimentano, ancor più delle grandi potenze, il disordine mondiale e la guerra mondiale a pezzi.  

 

 

LA CULTURA DELL’IMMEDIATISMO E LO SPAZIO DI AZIONE DEI COMUNISTI

 

I processi storici epocali della guerra permanente e del disastro ambientale disegnano un mondo molto diverso da come se lo erano figurati i nostri padri e come ce lo eravamo figurato noi stessi alcuni decenni fa. E assieme a questa nuova configurazione del mondo, si sta delineando anche, in uno con la gigantesca rivoluzione scientifica e tecnologica dell'informatica e della robotica, la vera e propria trasformazione antropologica degli esseri umani, tuttora in pieno svolgimento. L'espandersi di contesti virtuali accanto e non di lato addirittura al di sopra della realtà materiale, intellettuale e spirituale con la quale gli esseri umani hanno camminato per millenni; e la presenza sempre più significativa attorno a noi di entità robotiche che custodiscono nel vecchio manufatto meccanico-industriale un cuore pulsante fatto di comandi algoritmici in parte autogenerativi e in parte collegati a specifici centri di controllo e gestione a distanza, non sono fatti in sé neutri ma hanno enormi conseguenze sociali e antropologiche.

Una volta i filosofi partivano dalla domanda “cos'è l'uomo”? Oggi dovremmo cominciare a interrogarci diversamente, e cioè: “che ne è dell'uomo”? cosa stanno diventando gli esseri umani? Senza lasciarsi andare a scenari apocalittici bisognerà prendere atto del come si stia auto-modellando un'identità umana tutta schiacciata sulla immediatezza del presente e sempre meno capace di padroneggiare i paradigmi del passato e del futuro. E questo ha a che fare enormemente anche con l'effettiva capacità umana di controllare le vicende storiche. Finanche le guerre guerreggiate all'interno della guerra mondiale a pezzi sembrano svolgersi oggi quasi per forza propria, con una strabiliante incapacità tanto dei governanti quanto dei governati di rendersi conto di quello che accade o sta per accadere.

Insomma, in un mondo siffatto è davvero necessario ripensare globalmente le cose e l'ordine delle cose. E chi voglia agire veramente contro il capitalismo dovrebbe caratterizzarsi con iniziative, ragionamenti e proposte non arroccate semplicemente sui propri ideali, sui propri programmi strategici e sulle proprie convinzioni storiche. Dovrebbe invece operare fattivamente per mettere assieme tutte le energie che possono essere messe assieme, ivi compresi coloro che in maniera contraddittoria - contraddittoria anche con la logica, se si vuole, ma in forme reali e persino generose - intendono comunque porsi come argine al disastro. In altre parole, io penso che il primo livello di connessione noi comunisti lo dobbiamo trovare con tutti coloro che, pur non avendo una ripulsa di principio per il capitalismo come ce l'abbiamo noi, abbiano comunque avversione per il fascismo, per l'autoritarismo e per le sofferenze sociali.

Qui in Italia, io credo che un punto di riferimento forte possa essere esattamente la nostra Carta Costituzionale, attorno alla quale costruire Comitati popolari per la pace e i diritti che abbiano caratterizzazione ampia e che vedano la partecipazione attiva di noi comunisti senza la logica asfittica del mettere i puntini sugli “i”.

 

 

LA PROPOSTA POLITICA DELLA DEMOCRAZIA PROGRESSIVA

 

Va però tenuto fermo che anche in un contesto di dinamiche unitarie noi abbiamo il dovere di far vivere comunque la nostra specificità. La dovremmo mantenere, per esempio, anche rispetto alle prossime elezioni regionali qui in Campania. Al riguardo, io ritengo che dobbiamo continuare a lavorare, come in effetti stiamo facendo, per una proposta politica incentrata su alcuni contenuti per noi decisivi. Noi li abbiamo elencati con chiarezza nei mesi scorsi, prospettando, in estrema sintesi, una nuova fase politica, nettamente diversa dalle lunghe stagioni che abbiamo alle spalle. La esplicitiamo oggi con riferimento alle prossime elezioni regionali, ma essa va al di là della scadenza elettorale del prossimo novembre. La intendiamo, infatti, esattamente come proposta politica di fase, con un suo respiro generale e con una serie articolata di rivendicazioni.

Intanto, c'è la questione dirimente dell'acqua pubblica, che nei conciliaboli di questa confusa e contraddittoria vigilia da più parti si vorrebbe definitivamente archiviare. È inaccettabile, per noi, una amministrazione regionale che non proclami con la necessaria immediatezza e solennità il riconoscimento dell’acqua come un bene primario da tenere accuratamente fuori dalle logiche di mercato e da affidare alla gestione esclusiva della mano pubblica. E parimenti inaccettabili sarebbero le ambiguità a proposito dei beni comuni e dei bisogni materiali dei cittadini.

Per come la concepiamo noi, una amministrazione regionale autenticamente democratica e di progresso dovrebbe salvaguardare in tutti i modi il carattere pubblico dei beni comuni, procedendo al potenziamento reale delle strutture sanitarie, dei presidi di cura, dell’istruzione e dei trasporti, come pure alla bonifica integrale e sostenibile dell’ambiente: cioè, per intenderci, senza lo scempio economico e paesaggistico dell'eolico selvaggio che sta penalizzando, con l'acquiescenza dell'attuale giunta regionale, le produzioni agricole e la vivibilità delle zone interne della nostra regione, nonché col rispetto assoluto, su tutto il territorio regionale, della biodiversità e della integrità delle aree boschive e costiere, così come prescritto dall'art. 9 della Costituzione. E ovviamente, per come la vediamo noi, occorre anche avviare, senza furbizie, un ciclo davvero virtuoso dei rifiuti, che la faccia finita con la logica dell’incenerimento e delle discariche e accresca invece le pratiche di riuso e riciclaggio.

Riteniamo, inoltre, che proprio in un contesto sociale povero come quello campano, la politica regionale dovrebbe impegnarsi in modo particolare nel sostegno ai redditi delle persone in difficoltà economica, spingendo, sì, per il lavoro e l’occupazione, ma senza mai lasciare privi di tutele e di reddito quelli che il lavoro non riescono a trovarlo e però hanno ugualmente il diritto di vivere con dignità. Si tratta, cioè, di muoversi in direzione diametralmente opposta alla “guerra ai poveri” portata cinicamente avanti dall’attuale governo, il quale come suo primo provvedimento ha voluto cancellare proprio la sacrosanta misura del reddito di cittadinanza. Peraltro, noi proponiamo, sul piano più generale della spesa pubblica, che l’Ente Regione affianchi direttamente, con apposite provvidenze, la gestione dei bilanci degli enti locali, con l’obiettivo esplicito di evitare il taglio dei servizi territoriali e la dismissione del patrimonio pubblico, e ciò in una logica che colleghi strettamente l'efficienza amministrativa alle esigenze materiali della cittadinanza e alla concreta vivibilità di tutte le aree della regione. E vogliamo, infine, una politica regionale che faccia della Campania un luogo di pace (denuclearizzando, ad esempio, il nostro mare e ponendo fine alle servitù militari) e un luogo di inclusione e accoglienza (intervenendo, ad esempio, sulle tante barriere burocratiche che infelicitano la vita ai migranti).

Questo nostro insieme di idee e proposte l’abbiamo ricompreso nella espressione “democrazia progressiva”, che è un concetto politico che viene dal dopoguerra, utilizzato allora, nel percorso di costruzione della Repubblica e nello stesso dibattito alla Assemblea costituente, dai settori più combattivi che uscivano dalla Resistenza antifascista. Noi lo riproponiamo in forme nuove, con riferimento ai problemi che abbiamo di fronte e alla drammaticità della situazione in cui ci troviamo. Si tratta quindi di una dichiarazione di identità politica che ci accompagnerà per una non breve fase storica, e non soltanto di un elenco di proposte.

Pensiamo tuttavia che diverse rivendicazioni che mettiamo al primo posto potrebbero anche concretizzarsi, poiché la situazione è davvero insostenibile: per l’estendersi e l’aggravarsi della povertà, per il degrado delle periferie, per i veleni molteplici che circolano nelle falde acquifere, per la situazione pesantemente critica della sanità campana, per il vero e proprio collasso del trasporto pubblico nella nostra regione. E quando una situazione diventa socialmente indifendibile, anche le classi dominanti hanno difficoltà a far finta di niente. Così una dichiarazione chiara d'intenti, con contenuti propositivi ragionevoli e comprensibili, può anche trovare spazio. Può trovare spazio se si collega, ovviamente, a dinamiche di effettiva mobilitazione sociale, ad oggi non ancora chiaramente alle viste, pur se non mancano focolai attivi di resistenza: dai disoccupati del 7 novembre ai comitati ambientalisti della terra dei fuochi ai comitati in difesa dell'acqua pubblica e del diritto all'abitare, e altri ancora.

In ogni caso, dire che in Campania si deve aprire una stagione di democrazia progressiva significa ribadire anzitutto che le istituzioni campane le vogliamo apertamente contro il governo fascista e similfascista che c’è a Roma; in secondo luogo, le vogliamo contro ogni idea della politica come pura gestione dell’esistente e impassibile indifferenza a qualsiasi prospettiva di cambiamento; e in terzo luogo, le vogliamo aperte alle rivendicazioni che hanno caratterizzato le buone e giuste battaglie che abbiamo fatto in questi anni in tema di diritti, ambiente e solidarietà. In sostanza, a chi si propone di amministrare l’Ente Regione chiediamo di dare risposte positive anche a proposito degli obiettivi che abbiamo enunciato.

 

 

LE NOSTRE PROPOSTE E LA STRETTOIA ELETTORALE

 

Lo sappiamo bene, io credo, come non sia affatto sufficiente  aver chiaro quello che si vorrebbe. E ritengo sia compito di questo stesso Congresso discutere, accanto ai contenuti programmatici e alla proposta politica di fase, anche il percorso più adatto a farle poi realmente camminare, le rivendicazioni che indichiamo come prioritarie. A tal proposito, è fin troppo evidente come la situazione campana stia procedendo, nello schieramento di opposizione al governo delle destre, con uno sconcertante e avvilente palleggiamento tra PD e 5Stelle, e specialmente all'interno dello stesso PD, tutto giocato su posizionamenti, figure e ruoli da ricoprire, e con l’assenza più assoluta dei contenuti. Non a caso, sono emerse varie voci critiche a proposito di questo svolgimento. Un gruppo ampio di intellettuali e diverse realtà associative si sono esplicitamente chiamati fuori da questa logica; e qualcuna di queste soggettività ha avanzato anche una proposta che reputo, almeno in parte, interessante.

In verità, circola in questi ambienti anche uno scenario che per diverse, intuibili ragioni non ritengo praticabile. Esso prevederebbe, infatti, che le voci critiche (quelle che mettono in primo piano i diritti, l’ambiente e i beni comuni) costruiscano un accordo elettorale con le forze politiche del campo largo più permeabili ai contenuti sociali e ai valori della solidarietà. Immagino che ci si riferisca soprattutto ad AVS e ai 5Stelle, che però, nonostante la presenza di innegabili contenuti di progresso nei loro discorsi e nelle loro azioni, hanno obiettiva difficoltà, almeno qui in Campania, a muoversi con una condivisione complessiva degli obiettivi di avanzamento sociale. E anzi, a me pare che sia AVS che i 5Stelle stiano globalmente maturando una fisionomia politica che li spinge, un po’ dappertutto, a mettere gli schieramenti al primo posto e non i contenuti. E ciò fa visibilmente a pugni con la logica nostra che procede esattamente all’incontrario: prima i contenuti e poi la collocazione politica-elettorale.

Più assennata mi pare, dunque, l’altra variante ipotizzata, e cioè la costruzione di una lista con contenuti esplicitamente di sinistra che sostenga sì il candidato presidente del Campo Progressista (verosimilmente Roberto Fico) nello scontro elettorale con la destra, ma rivendicando la propria autonomia sui contenuti programmatici. È una ipotesi su cui, a determinate condizioni, si potrebbe discutere. Di sicuro, sarebbe difficile (per non dire impossibile) imporre contenuti globalmente avanzati a una coalizione che avrebbe tra le sue coordinate di partenza la continuità con la gestione De Luca, gestione che noi critichiamo in radice. Sono due cose che non stanno assieme. Qui in Campania, una lista con contenuti coerentemente “di Sinistra” potrebbe stare nello schieramento a sostegno del candidato presidente dei 5Stelle soltanto con una impostazione, per così dire, di “desistenza” esplicita, ovvero sottoscrivendo unicamente i punti in linea con la logica dei diritti e dei beni comuni, e mantenendo la propria libertà di azione sul resto. E tuttavia, questo stesso scenario, per essere poi credibile agli occhi degli elettori, dovrebbe avere, come conditio sine qua non, il sostegno effettivamente ampio di persone, associazioni e soggettività culturali e politiche già normalmente impegnate sui temi sociali e ambientali.

Così, se per davvero si aprisse una simile possibilità, col concorso di persone e soggettività ben al di là di noi - al di là, cioè, del ristretto contesto della sinistra di alternativa -, ebbene io penso che dovremmo verificarla; e, se il caso, parteciparvi proprio come Rifondazione Comunista. Se non altro, perché essa non ci chiuderebbe in partenza nell'angolo. E lo dico non tanto ai fini dell’unità delle forze contro la destra o del superamento dei limiti pesantemente costrittivi che impone la legge elettorale maggioritaria delle elezioni regionali (di cui noi abbiamo purtroppo esperienza, essendoci presentati in alternativa a entrambi i poli nelle ultime tre tornate elettorali, dal 2010 al 2020, con risultati a dir poco deludenti); lo dico proprio al fine di far vivere nella maniera più utile e più capace di parlare a larghe masse la stessa prospettiva politica della Democrazia Progressiva, per la quale intendiamo batterci in questa fase storica.

In ogni caso, vorrei che non si sottovalutasse lo spessore della parola che ho adoperato: “verifica”. Sono infatti diverse le cose che andrebbero comunque verificate: da un lato, l'effettiva convergenza degli “altri” sui contenuti che noi chiamiamo di “democrazia progressiva”, di coloro, cioè, che dovrebbero costruire assieme a noi una lista con contenuti coerentemente di sinistra; dall'altro lato, l'effettiva disponibilità del candidato-presidente del campo largo ad accettare, tra i soggetti che lo sostengono, una lista che non sottoscriverebbe l'insieme del programma con cui egli stesso va alle elezioni; da un altro lato ancora, l'effettivo grado di convinzione col quale i nostri compagni e le nostre compagne del Prc campano vivrebbero un tale percorso. Non è un caso che nel nostro statuto, sulle scelte elettorali, sia prevista anche la possibilità della consultazione referendaria degli iscritti.

D’altra parte, non si può ancora escludere, per come la vedo io, anche una diversa possibilità: e cioè che emerga una convincente proposta di coalizione alternativa fuori dalle pastoie del campo largo campano. Di fronte allo spettacolo avvilente di queste settimane, potrebbe infatti anche succedere che si determini, a sinistra, una significativa convergenza di forze in chiave globalmente alternativa, con un candidato o una candidata presidente credibile e riconoscibile, e con una partecipazione realmente ampia di cittadini e soggettività sociali. Parlo, per esser chiari, di qualcosa di molto diverso da ciò che abbiamo fatto nel 2010, che abbiamo fatto nel 2015 e che abbiamo fatto nel 2020: ovvero, di un qualcosa che non si configurerebbe come la semplicistica e poco produttiva corsa identitaria “contro tutti”, in una logica di “campagna di propaganda” non tesa a eleggere ma indirizzata fondamentalmente a far conoscere le posizioni delle forze critiche e dei rivoluzionari. Parlo, cioè, di qualcosa che non si limiterebbe a innalzare il proprio vessillo, ma che potrebbe realmente parlare ai tanti e alle tante che non se la sentono di votare per un campo largo costruitosi palesemente come terza stagione del deluchismo.  

E aggiungo che se nei prossimi giorni si dovesse configurare una simile dinamica, noi di Rifondazione dovremmo starci convintamente dentro, senza lasciarci spaventare da chi astiosamente ci direbbe: “così voi fate il gioco delle destre”. E anzi, rintuzzandola a muso duro una tale accusa: è proprio lo spettacolo avvilente di queste settimane (con le candidature familistiche di ogni tipo e l’assoluta assenza di contenuti sociali apprezzabili), è proprio la logica della piena continuità col deluchismo, è proprio questo che apre praterie alle destre, e che soprattutto agisce come insidioso vulnus della democrazia, mortificando qualunque passione democratica e spingendo all’astensionismo e al rigetto della politica nel suo complesso.

 



SUL PRC CAMPANO

 

Chiudo questa relazione con poche parole sullo stato del partito campano. Poche parole perché il tema sarà senz'altro sviscerato con sistematicità e attenzione dal Comitato politico regionale che uscirà dal Congresso. Ho lungamente svolto la funzione di segretario regionale del Prc campano, eletto e riconfermato nei tre congressi precedenti; e ancor prima del 2016 ho svolto questo incarico in supplenza per oltre due anni. È alla luce di tale esperienza che posso formulare qui un chiaro giudizio politico e storico, che è il seguente: il Prc campano, ma credo che la questione non riguardi solo la nostra regione, ha resistito come ha potuto e saputo, ma non è uscito dalla condizione di complessivo arretramento che viviamo, per dire una data, almeno dal 2008, e forse anche da prima. È una condizione sostanzialmente storica, per cui a me pare del tutto riduttiva l'insistenza, tuttora presente tra noi come tranquillizzante spiegazione, sui limiti della linea politica e della gestione. Purtroppo, molto più delle nostre insufficienze (che ovviamente ci sono, perché solo chi “non fa” non va incontro a sbagli) ci penalizza direttamente il contesto storico, e specificamente la chiusura ormai conclamata del Novecento. Ed è proprio qui che sta il problema: perché noi continuiamo ad essere - per struttura organizzativa, per linguaggio e per paradigmi di ragionamento - un partito politico pesantemente novecentesco.

Io non penso che le verità scomode debbano inevitabilmente portare alla depressione o alla rassegnazione. Le verità scomode è possibile anche concepirle come utile punto di partenza per andare in avanti. In altre parole: che tipo di militanza possiamo e dobbiamo chiedere a noi stessi? E in che modo dobbiamo parlare alla società, ai settori sociali penalizzati dal sistema capitalistico e dal nesso stringente di guerra permanente e disastro ambientale? E ancora: assumiamo o no le dinamiche dell'autorganizzazione come chiave di volta dei percorsi di emancipazione e liberazione? E riteniamo o no che non ci siano stacchi tra le questioni che riguardano le condizioni materiali e le questioni che attengono alla vita spirituale delle persone? E infine: pratichiamo fino in fondo il nesso tra attività sociale e attività politica? Sono, con tutta evidenza, questioni di fondo. Che non si risolvono in quattro e quattr'otto. E però io ritengo che solo partendo dalle questioni di fondo potremo camminare realmente in avanti in questo nostro tempo così difficile, dismettendo i falsi movimenti che la realtà virtuale amplifica e ci consegna, finzione suprema!, come fossero un agire effettivo (per esemplificare: i selfi con le bandiere sui social, corredate dal rassicurante slogan: Rifondazione c’è...)

Debbo infine dire che in questi dodici anni vissuti come segretario regionale, ho avuto la vicinanza e il sostegno attivo di molti compagni e compagne generosi. Che ringrazio di cuore. E oggi tutti assieme possiamo dire che, nonostante tutto, abbiamo resistito: resistito comunque, seppure in una condizione di progressivo arretramento. Abbiamo anzi provato in molti modi a invertire la rotta: magari non sempre con lo stesso grado di convinzione e le stesse vedute, ma sempre tutti assieme. È però un fatto che non ci siamo riusciti. E la sconfitta più bruciante resta quella di non avercela fatta a ricostruire il Partito in provincia di Caserta e in provincia di Benevento, pur avendo tentato in ogni modo.

Il PRC campano di questo fine 2025 è dunque una formazione politica obiettivamente debole, non presente omogeneamente sul territorio e non in grado di porsi come punto di riferimento politico per aree significative delle classi popolari. Conserva tuttavia energie intellettuali e morali di sicura rilevanza; ed è sicuramente capace di contribuire a molte buone e giuste battaglie. Il nuovo Comitato Politico che oggi nomineremo e il nuovo gruppo dirigente che da esso verrà indicato ereditano, perciò, una situazione difficile, e però anche una condizione aperta di partenza, che può permettere una progressione in avanti. Con tutta la fatica necessaria.

Per quel che mi riguarda, io continuerò a dare il contributo di cui sono capace in questa azione di resistenza e ricostruzione. E credo che il compagno o la compagna che subentrerà nella funzione di segretario/a regionale (cui faccio già ora l’augurio più sentito) lo sappia in partenza di poter contare sulla mia militanza.

La chiudo qui, e ringrazio tutti e tutte voi per l’attenzione.

 


Rino Malinconico

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