A SUD DI NESSUN NORD

Perché ripubblicare, a distanza di trent'anni, l'articolato resoconto della rivista romana ALTERNATIVE a proposito del CONVEGNO SUL MEZZOGIORNO organizzato nel novembre del 1995 dallo SLAI-COBAS?
Sostanzialmente per tre ragioni:
1) Perché l'innovativo impianto analitico che caratterizzò il Convegno di Crotone rimane, a giudizio di chi scrive, estremamente attuale;
2) Perché la condizione del Sud all'interno del Sistema-Italia è oggi addirittura peggiore di trent'anni fa;
3) Perché la crisi irreversibile della globalizzazione, il crescere drammatico del combinato disposto di nazionalismo e guerra a scala globale e la riarticolazione forzosa del Sistema-Italia tra "aree forti" e "aree deboli" impongono - in particolare a coloro che hanno ancora a cuole l'ideale del socialismo - una rilettura complessiva del capitalismo italiano e una più matura declinazione della prospettiva dell'alternativa di società.
BUONA LETTURA.
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A Sud di nessun Nord
un convegno e una sfida
intellettuale a tutta la sinistra
a cura della redazione
di ALTERNATIVE
È stata propagandata con la dizione un po’ anonima di "Conferenza SLAI-COBAS sul Mezzogiorno" e si è tenuta a Crotone il 24 novembre 1995. A conclusione dei lavori - più di 20 gli interventi, concentrati in una sola giornata è però possibile proporne una intestazione meno incolore, cedendo magari, e perché no?, alla tentazione retorica di racchiudere in una sola espressione tutti i ragionamenti svolti.
Potrebbe servire una allitterazione, forse già
utilizzata da altri in altro contesto, a definire questo convegno. Potremmo
titolarlo: "A sud di nessun nord".
Certo, se venisse ricordato solo in questo modo,
come il Convegno che ha puntato a depotenziare le differenze tra Nord e Sud, derubricando
la stessa attualità della lunga "questione meridionale", si farebbe
torto alla varietà e alla qualità degli interventi che per una impegnativa
giornata si sono confrontati, talvolta contrapposti, più spesso richiamati
e integrati.
È però fuor di dubbio che nelle analisi
proposte dagli organizzatori l'aspetto unitario e prevalente sia stato
proprio quello della critica della "questione meridionale". Nel senso
che tanto nella relazione introduttiva di Pino Greco quanto nelle conclusioni di
Rino Malinconico, ma anche in diversi altri contributi, lo SLAI suggerisce esplicitamente
una immagine del Sud davvero controcorrente, indicandolo come un
territorio-cavia della modernità capitalistica. È con questa provocazione
analitica che anche le altre voci presenti - la CGIL e Rifondazione
Comunista come realtà organizzate - si sono dovute misurare, contrapponendo
un taglio più continuista, più interno alla tradizione gramsciana, peraltro
con qualche tentativo di aggiornamento analitico, oltre che politico.
Il punto di partenza dell'analisi dello SLAI è
l'unitarietà del sistema capitalistico: ma non nel senso banale
per cui a un polo di accumulazione e
sviluppo corrisponderebbe necessariamente un polo di spoliazione e regresso. Questo
dato per lo Slai è vero e scontato; ma proprio perché agisce sempre, esso
spiega ben poco. Tant’è, argomentano gli autorganizzati, che viene evocato
indifferentemente sia da quelli che parlano del Mezzogiorno come di un'area a
mancato sviluppo capitalistico e sia da coloro che vedono agire nel Sud-Italia
le leggi capitalistiche nella forma della rapina imperialistica e neocoloniale.
Come dire, il vecchio PCI e la vecchia Estrema Sinistra degli anni '70.
Al primo, lo Slai rimprovera il "feticcio
dell'arretratezza", per cui le miserie del Sud sarebbero sempre state
null'altro che la conseguenza di una arretratezza generale del capitalismo
italiano: troppo condizionato dal peso della rendita, esso si sarebbe
ridotto ad agire, appunto, nei termini “arcaici” della spoliazione, anziché
nei termini "moderni” della armonizzazione e ottimizzazione delle risorse.
Di qui, la proposta strategica del PCI: "patto dei produttori” contro
la rendita e “investimenti industriali” come volano dello
sviluppo meridionale.
Alla Estrema Sinistra degli anni '70 lo Slai
riconosce, invece, il merito storico di aver riproposto il connubio tra sviluppo
capitalistico e miseria sociale. Tuttavia tale legame è stato presentato, a
giudizio dello Slai, in modo parziale e distorto. Parziale, perché per la gran
parte dei raggruppamenti politici degli anni '70 la miseria sociale aveva
davvero luogo solo dentro il meccanismo imperialistico e solo relativamente alle
“zone imperializzate”; distorto, perché il modello imperialistico veniva fatto
agire all'interno stesso dello Stato italiano, con la sostanziale equivalenza
del rapporto nord-sud in Italia col rapporto nord-sud a scala planetaria.
Il riferimento è, insomma, al capitalismo
contemporaneo più avanzato, al suo portato di barbarie. La inintegrabilità di
una quota sempre più rilevante di forza-lavoro nell'attuale sistema
informatizzato della produzione sociale, la progressiva desertificazione dei
territori rurali e la crescita sregolata degli aggregati urbani, la
polverizzazione dei luoghi della produzione e la corrispondente centralizzazione
dei processi di accumulazione: tutto ciò non è tipico del Sud; si tratta invece
delle modalità di tutta la moderna produzione capitalistica, che agiscono
tanto al Sud quanto al Nord. Se nel Sud lo spreco assoluto degli esseri umani e
la marcescenza degli spazi sono divenuti fenomeni così abnormi è solo
perché il capitale ha trovato un terreno già in parte predisposto dai vecchi
assetti produttivi, un ambiente ideale per esaltare al massimo la sua moderna
pratica di barbarie sociale. Per citare un passaggio delle conclusioni: "il
Sud è stato, dagli anni '70 in poi, il laboratorio, la cavia della modernità".
Una siffatta impostazione necessita ovviamente di
una verifica severa rispetto ai dati che continuamente sembrerebbero contraddirla.
Né lo Slai ha inteso sottrarvisi. Anzi, un punto forte del ragionamento è stata
proprio l'analisi del differenziale tra Sud e Centro-Nord.
È fuor di dubbio che le capacità produttive del
Mezzogiorno sono inferiori alla media nazionale: 800 imprese ogni 100.000
abitanti contro una media nazionale di 1400. E però sintomatico come i dati del
1994 mettano proprio una provincia semimeridionale come Pescara al primo posto
nella graduatoria dell'incidenza delle nuove imprese sul totale complessivo. È un
indicatore che dà ragione dei trend di crescita, che indica le dinamiche
effettive di sviluppo. In questa graduatoria, Isernia è al sesto posto, Benevento
al decimo, Caserta al quattordicesimo, Palermo al ventiduesimo, Taranto al
ventisettesimo, Avellino al trentaseiesimo. Per dare il senso delle cose,
basterà dire che Bologna è al quarantanovesimo posto, Brescia al cinquantesimo,
Trento al settantaseiesimo, Milano all'ottantaduesimo. Inoltre province come Trapani
e Cosenza precedono altre come Macerata e Bolzano; e anche Napoli, benché nella
fascia bassa della classifica, precede comunque province ben più ricche come
Udine, Firenze o Milano.
Una controprova è possibile rinvenirla nella
percentuale delle imprese che falliscono, sempre al 1994. Mentre a Potenza sono
fallite 14,30 imprese ogni 1000 registrate alla Camera di commercio, a Mantova il
numero sale a 19,69. Anche questa è una graduatoria significativa. Scorrendola
scopriamo così che Reggio Calabria ha una percentuale di fallimenti minore di
Arezzo, che la percentuale di Varese è il doppio di quella di Agrigento,
che a Pordenone si ischia il fallimento due volte e mezzo più che a Ragusa.
Un'altra riprova, per certi versi addirittura
sorprendente, è quella delle denunce per assegni a vuoto. In questa classifica
(assegni a vuoto ogni 100mila abitanti) Roma è al primo posto con 2509 casi,
seguita da Pisa con 1087. Anche Milano e Parma si situano nella parte alta della
classifica. Viceversa Reggio Calabria, Palermo (60 casi), Brindisi e Napoli (25
casi) risultano tra le piazze più sicure per questi tipi di pagamento,
utilizzati in massima parte proprio dalle aziende.
Del resto, anche l'incidenza occupazionale del settore
manifatturiero sul totale della forza-lavoro complessiva (disoccupati compresi)
dà ragione di una forbice meno netta e stabile di quel che comunemente si
ritiene. Infatti, i dati del '94 ci rappresentano i valori industriali nel
seguente modo: l'industria campana occupa il 25,85% della forza-lavoro; quella
ligure il 24,66%. Il Lazio, a sua volta, sta solo un po’ più su della Calabria:
21,22% contro il 20,98%, ma molto più giù della Puglia che si ritrova con il
26,33% di addetti all'industria. Nel 1989, in fase recessiva, la Puglia aveva
una percentuale del 20,51%, la Calabria era al 12,40% la Campania al 18,83%. Si
tratta di incrementi ben più consistenti di quelli avvenuti in Liguria (20,91% al
1989) o nel Lazio (16,45% al 1989). E per dare completezza al quadro, basterà
ricordare come nello stesso periodo l'incidenza degli occupati nell'industria piemontese
conosce una sostanziale stasi rispetto al totale della forza-lavoro: dal 38,40%
del 1983 al 39,90% del 1993.
Chiunque conosca qualcosa di economia sa bene
che nel mare dei dati nulla è più facile che perdersi. Per cui sarà bene
richiamare a questo punto la tesi dello Slai sulla forbice produttiva. Essa
esiste per lo Slai, e anzi la situazione di affanno delle regioni meridionali è
globalmente cresciuta rispetto, poniamo, a 10 anni or sono. Tuttavia lo Slai
sottolinea con forza come il declino, da un lato, non sia appannaggio delle sole
regioni meridionali e, dall'altro, non implichi affatto l'arretratezza della struttura
produttiva.
Quanto al primo punto è difficile dar loro
torto. Per restare alle sei regioni citate in precedenza, il Prodotto Interno Lordo
per abitante diminuisce tra il 1983 e il 1993 dappertutto, tranne che in un
caso. In Campania: 73,05% il ¨prodotto per abitante sulla media nazionale al 1983; la
percentuale scende al 69,51% nel 1992. In Puglia si passa dal 74,35% del 1983 al
73,18% di dieci anni dopo. In Calabria il calo è ancora più consistente della
Campania: dal 65,05% al 59,01%. Il Lazio vede invece un incremento, passando dal
107,05% del 1982 al 113,70 del 1992. Addirittura più sostanzioso che nelle regioni
meridionali si presenta però il declino della capacità produttiva in Piemonte
dal 123,05% al 112,82%) e in Liguria (dal 126,70% al 116,57%).
Cosa dedurne? Soprattutto questo: che se aggrava
la sofferenza meridionale, il capitale fa soffrire anche altrove, per cui in Italia
si moltiplicano davvero le questioni. C'è effettivamente, oggi, una questione
del nord-ovest, così come c'è una questione sarda, così come c'è una questione
del nord-est. Se prendiamo altri dati, infatti - per esempio, sulla stessa disoccupazione
-, si sfatano parecchi luoghi comuni. Non nel senso che il Sud non stia male,
precisano gli autorganizzati, e anche molto più male del resto dell'Italia; ma
nel senso che il capitale moderno non ci consegna più, quasi da nessuna parte,
le “isole felici” del passato anche recente. Le statistiche del 1993 ci dicono che
la disoccupazione in Campania interessava il 19,67% della forza-lavoro, e che la
percentuale scendeva al 14,01% in Puglia, ma restava alta in Calabria (20,48%).
E però, in quello stesso anno la disoccupazione era comunque al 9,94% nel Lazio,
al 9,42% in Liguria e al 7,13% in Piemonte. E si consideri che quattro anni
prima, in fase di più acuta recessione, il differenziale tra Sud e Centro-Nord era
ancora più alto: Campania al 22,91%, Puglia al 16,75%, Calabria al 26,89%;
dall’altro lato: Lazio al 12,66%, Liguria al 10,07%, Piemonte al 7,52%. Per completezza
del quadro, dal 1989 al 1993, la ¨Toscana è passata da 9,21% di disoccupati all’8,28%
e l'Emilia-Romagna li ha visti invece aumentare dal 5,49% al 6%.Nello stesso
periodo, considerati su base nazionale i disoccupati sono passati da una
percentuale del 12,01% a una del 10,35%.
Ma il quadro risulta ancora più variegato e
problematico, se si considera che la percentuale dei disoccupati sul totale della
popolazione residente è sorprendentemente più bassa a Taranto e Bari rispetto a
Ferrara o Viterbo (dati Confindustria del 1994) e che Avellino e Foggia hanno
all'incirca la stessa percentuale di Frosinone o Forlì. O anche, che i
disoccupati con più di 29 anni sono percentualmente di più a Reggio Emilia che a
Napoli, più a Varese che a Foggia, più a Belluno che a Caserta, più a Pavia che
a Matera.
Insomma, dicono gli autorganizzati, la disoccupazione
tradizionale cede il passo alla nuova disoccupazione della modernità capitalistica,
penalizzando anche aree un tempo “forti”. E in parallelo con lo spreco assoluto
degli uomini nella moderna produzione sociale, si sviluppano e ingigantiscono ovunque
i fenomeni di barbarie e di degrado civile e territoriale. Finanche i dati sulla
criminalità mischiano sempre più le zone del nostro Paese, assegnando a Milano
il triste primato, e con Genova, Firenze e Modena in condizioni peggiori di Napoli,
Catania e Caserta (dati Istat riferiti al 1994). Per dirne una, la percentuale
degli omicidi sul numero degli abitanti è maggiore in provincia di Bologna che
in quella di Cosenza.
Del resto, i dati riferiti a Crotone dallo Slai
hanno ricevuto a distanza di qualche giorno una autorevole conferma nell'Atlante
del benessere pubblicato il 10 dicembre 1995 dal Sole 24 ore: la qualità
della vita migliora nel 70,6% delle province meridionali, mentre peggiora nel
50% delle province del Centro e nel 63,4% delle province del Nord.
Ma il convegno non si è svolto solo sul piano
analitico. Esso ha intrecciato continuamente analisi e proposta, capacità di
lettura (per es. di grande interesse è risultato l'intervento appassionato di Mara
Malavenda del Cobas Fiat-auto di Pomigliano sui processi di "melfizzazione”
in tutti i grandi comparti industriali) e indicazioni di prospettiva. Dal
convegno sono dunque uscite anche linee operative. Esse, come ha sottolineato
con lucidità Gigi Malabarba del Cobas dell'Alfa di Arese, riguardano l'intero conflitto
sociale e non solo il Mezzogiorno. La "questione meridionale” diventa così
"questione sociale" in senso proprio, e i suoi punti di espressione più
immediati sono esattamente i luoghi di lavoro, in particolare i punti di crisi
industriale, che esistono ormai dappertutto, e per i quali lo Slai prospetta la
riduzione generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario, nonché una
legislazione premiale sugli investimenti ad alta occupazione. ¨
Ma la questione sociale - è stato questo il
motivo conduttore sia dell'introduzione che delle conclusioni connette oggi, molto
più che in passato, lavoro e vita, caricandosi di una più forte radicalità.
"Quanto produrre, come produrre e cosa produrre” diventano realmente, nella
vita stessa delle persone, "quanto vivere, come vivere, cosa vivere".
Insomma, per dirla ancora con le parole di Rino Malinconico, lo Slai si è ritrovato a Crotone a parlare sì del Sud, ma ancor più per parlare dell'Italia da un osservatorio privilegiato. E per leggere sì il capitale nel suo complesso, ma anche, e soprattutto, per prospettare il conflitto possibile nelle sue nuove articolazioni, indicando con chiarezza le sfide veramente ultimative del nostro tempo, dallo sviluppo ecosostenibile, a partire dai punti di crisi, alla cittadinanza piena per tutte e tutti: in termini di vita e non solo di lavoro.

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