La classicità di Pier Paolo Pasolini
PASOLINI COME AUTORE CLASSICO
Tra
qualche giorno, il 2 novembre, saremo a cinquant’anni dalla morte drammatica di
Pier Paolo Pasolini. È stato il più classico dei poeti e degli artisti italiani
del Novecento. “Classico” nel senso esatto della parola: come ciò che val la
pena, e anzi è assolutamente necessario portare con noi. E di questa sua “classicità” – splendida e dolorosa
“classicità che lo rendeva implacabilmente estraneo allo stesso milieu
culturale del suo tempo - egli ebbe piena e matura consapevolezza.
Qui di
seguito, alcune eloquenti “confessioni” sul rapporto d’amore per il passato,
tratte dalla rubrica di confronto coi lettori “Dialoghi con Pasolini”, che egli tenne
per un quinquennio, dal 1960 al 1965, sul settimanale del PCI “Vie Nuove”.
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1) Ci
sono molte ragioni per cui preferisco la musica classica a quella contemporanea
come commento ai miei film. La prima è stilistica: la creazione cioè di un pastiche
linguistico, fortemente accentuato, «a contrasto» (il coro in tedesco della “Passione
secondo San Matteo” di Bach, sul miserabile rotolarsi nella polvere di “Accattone”),
che, per accensione espressiva, quasi espressionistica, serve a rappresentare
con più drammaticità quello che voglio dire (un grande e tragico destino di
morte che si sovrappone a una piccola, infima, sporca vicenda sottoproletaria).
E poi io sono ... «una forza del Passato», come ho scritto in certi versi che
ho pubblicato nel volume di “Mamma Roma”:
Io sono
una forza del Passato.
Solo
nella Tradizione è il mio amore.
Vengo dai
ruderi, dalle Chiese,
dalle
pale d'altare, dai borghi
dimenticati
sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono
vissuti i fratelli.
Giro per
la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia
come un cane senza padrone...
È un'idea
sbagliata - dovuta come sempre alla mistificazione giornalistica - quella che
io sia un ... «modernista». Anche i miei più fieri sperimentalismi non
prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e
europea. Bisogna strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione,
non le pare? Solo la rivoluzione può salvare la tradizione: solo i marxisti
amano il passato: i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni retoriche di
amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel
migliore dei casi, tale amore è decorativo, o «monumentale» come diceva Schopenhauer,
non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia. Mi lasci amare Masaccio
e Bach, e detestare la musica sperimentale e la pittura astratta. (Vie Nuove,
n. 42, 18 ottobre 1962).
2) È
vero, spesso uso dei «paroloni», ossia delle parole tecniche difficili - per
inerzia, per abitudine. Questo è il mio linguaggio consueto, ormai: il mio
linguaggio tecnico, gergale, di lavoro. Ma mi sembra un po’ qualunquistica la
tua richiesta di semplificazione e di riduzione linguistica da parte mia. So
bene che le cose sono tanto più chiare quanto più sono vere. Ma non sempre la
verità è integrale verità: spesso essa è verità nascente, involuta, contaminata
con false verità o verità superate.
Il suo
equivalente linguistico, quindi, non sempre può essere la chiarezza, la
integrale chiarezza. E allora nella ricerca della verità, chi si esprime ha il
diritto di passare attraverso le più appassionate complicazioni: e
l'interlocutore ha il dovere di adattarvisi, di adeguare il suo sforzo a quello
di chi si esprime. Io non posso pretendere, qui, di essere didattico o
enciclopedico; di insegnare qualcosa a dei diligenti ascoltatori. Io
desidero discutere: e ciò mi costa fatica, il che, poi, mi dà diritto di
pretendere un po’ di fatica anche dai miei lettori. La conoscenza di parole
nuove - e quindi di concetti difficili - la conoscenza di allocuzioni generali
nuove - e quindi di un mondo specializzato e diverso - non deve spaventarti: non
deve farti appellare, demagogicamente a una semplicità falsamente salutare e
diretta. (Vie Nuove, n. 47, 22 novembre
1962).
3) Insisto
a dire che non sono moderno nel senso che ha correntemente questa parola nelle
medie discussioni letterarie. Lo sono – spero - nel senso profondo della
parola. La pittura astratta, per esempio, è moderna nel senso corrente della
parola: per me essa è invece, nel senso profondo, vecchia, vecchia: putet, quatridauna
est! (puzza, è un cadavere di quattro giorni). Prodotto tipico e glorioso
del neo-capitalismo, essa lo rappresenta integralmente obbedisce cioè alla sua
richiesta di mancanza di intervento da parte dell'artista: «Artista, occupati
delle tue cose interiori! La tua arte sia il grafico della tua intimità, magari
la più profonda e inconscia!»: Questo richiede il capitale all'artista. E il
pittore astratto, trionfalmente, esegue l'ordine: e, perduto nei deliziosi-angosciosi
meandri della sua intimità, ha perfino il privilegio di non sentirsi privo di
orgoglio. Anzi, di credere di ubbidire all'ispirazione segreta e meno...
borghese.
Nel mio
lavoro invece - pur con tutte le contaminazioni e le colorazioni dovute alla
mia formazione, che ha contrassegnato per sempre la mia irrazionalità, la
docile materia del mio inconscio - c'è un assoluto bisogno di tradurre in
termini razionali anche le più sottili forme di ispirazione. Da ciò la mia
mancanza di modernità nel senso esteriore della parola. I miei esperimenti
linguistici - pur complessi, complicati e spesso fin troppo «squisiti» - hanno
ben poco di ciò che si suol chiamare «sperimentalismo» (come in certa musica «moderna»,
nella pittura «astratta», o nella poesia del revival avanguardistico). (Vie Nuove, n. 47, 22 novembre 1962).
4) Tradizione
e marxismo. Sì, insisto: solo il marxismo salva la tradizione. Oh, ma capiscimi
bene! Per tradizione intendo la grande tradizione: la storia degli stili. Per
amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita. La borghesia non
ama la vita: la possiede. E ciò implica cinismo, volgarità, mancanza reale di
rispetto per una tradizione, da essa intesa come tradizione di privilegio e
come blasone. Il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario,
implica l'amore per la vita, e, con questo, la revisione rigenerante, energica,
amorosa della storia dell'uomo, del suo passato.
La stupida
storia studiata - da te e da me - nelle scuole statali, ritrova tutta la sua
verità, e quindi la sua forza e la sua bellezza, se studiata attraverso la
metodologia marxista, la sua ancora inesausta capacità di riscoperta. Delle
volte, girando per Roma, mi imbatto in lavori di sventolamento. Vedo buttar giù
vecchie case, spianare vecchi giardini per costruirvi delle orrende palazzine
neo-capitalistiche. Ebbene i protagonisti della speculazione edilizia romana, i
Torlonia, i Caetani, i Gerini, con la folla dei loro servi, si dicono tutti
cristiani e tradizionalisti: e, forti di questa dichiarazione che li investe
quasi di una luce eroica, assistono senza batter ciglio allo scempio orrendo
che compiono le loro scavatrici. Io, che sono sovversivo, secondo loro, un
eversore della tradizione, mi trovo alle volte, non dico davanti a un grande
edificio, a una bella piazza, ma addirittura davanti a un vecchio muretto che
porti impressi nel suo umile peperino, nei pori dei suoi ornati corrosi, i
segni di uno stile del passato - mi trovo con le lacrime agli occhi: lacrime di
nostalgia e di rabbia.
Come
vedi, parlo di «passato» come storia nei suoi prodotti irripetibili e sublimi:
anche i più umili. E se tu questi prodotti li ricordi e li ammiri senza amarli,
sei in colpa: verso il futuro. (Vie
Nuove, n. 47, 22 novembre 1962).

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