A PROPOSITO DI ZORHAN MAMDANI. NOTE A MARGINE

 


di Rino Malinconico

  

1) Era ampiamente prevedibile che le reazioni dell'establishment alla elezione di Zohran Mamdani a sindaco di New York fossero di sconcerto, rabbia e persino paura. Non lo avrebbero mai creduto che ci sarebbe stato un sindaco del genere proprio lì, in una delle più grandi città del mondo, anzi nella città più saldamente collocata al centro del mondo. Un sindaco che parla con estrema naturalezza (magari un po’ troppo genericamente, ma comunque ne parla) di uguaglianza sostanziale e non solo formale tra i cittadini, che dichiara di volere ampliare i diritti sociali, dall'abitare alla sanità all'istruzione ai trasporti, che propone esplicitamente una politica redistributiva della ricchezza e di sostegno ai salari, e che, in aggiunta, si contrappone al nazionalismo trumpiano e alle logiche di guerra. Ebbene, un sindaco di tal fatta non poteva che essere percepito come autentica provocazione dall'establishment liberista e nazionalista dei Paesi ricchi, in USA non meno che in Europa.

Aggiungo che fa pietosamente sorridere, sull’altro versante politico-istituzionale, il palpabile imbarazzo (anch’esso piuttosto scontato) dei liberali e liberisti di sinistra statunitensi ed europei. Diversamente dai liberali di destra e dai conservatori, essi si oppongono (almeno in linea di principio) al similfascismo di Trump. Non possono perciò volgere anch’essi la faccia al lutto e al livore. In qualche modo sono obbligati a “fare di necessità virtù”. Spiegano così, a gran voce – basta dare un’occhiata ai maggiori quotidiani italiani di “centro” e “centrosinistra”, o ascoltare per tre soli minuti i talk televisivi –, come la principale novità dell’accaduto non stia affatto nel “programma socialista” col quale Mamdani si è imposto nelle primarie del Partito Democratico e nelle elezioni vere e proprie. La novità da sottolineare – ci dicono – va tutta riferita al suo appartenere alla minoranza religiosa musulmana (la qual cosa si presenta effettivamente, anche per me, come una novità molto significativa negli Stati Uniti di oggi; ma proprio il metterla davanti all’identità socialista tradisce platealmente l’imbarazzo dei liberali di sinistra).

Quello che davvero preme loro è di dare un senso ai commenti che sciorinano a mezza bocca tra la contentezza per la sconfitta di Trump e l’amarezza per la vittoria di un socialista; e il principale obiettivo comunicativo è di far passare sotto silenzio proprio il programma politico-sociale del nuovo sindaco, evidenziando, al contempo, un assai peloso messaggio (auto)rassicurante. Messaggio che, ridotto all’osso, è poi il seguente: il valore storico di quello che è successo bisognerebbe leggerlo soprattutto nella conferma dell’uguaglianza di possibilità, “garantite a chiunque” (nonostante Trump) dalla democrazia americana...

In altre parole - per i molti democratici fieramente avversi all’ideale socialista e a Zohran, e però obbligati adesso a “farselo piacere” in qualche modo -, l’inattesa elezione di Mamdani confermerebbe che il sistema politico USA, come ci ripetono da quasi un secolo, è “ottimo e giusto” così com’è. E il suggerimento implicito è che a quel sistema è bene che tutti gli anti-trumpiani continuino a guardare con fiducia. Senza dar credito alle idee del signor Mamdani e tantomeno alla Associazione politica cui appartiene (Democratic Socialists of America, acronimo DSA), la quale dice di sé: “Crediamo che i lavoratori debbano gestire l'economia e la società in modo democratico per soddisfare i bisogni umani, e non per generare profitti per pochi”. Che è una frase più che sufficiente a far inorridire non solo Trump e Musk, ma anche Biden e pressoché tutti gli esponenti democratici di USA ed Europa...

 

2) Debbo tuttavia constatare reazioni piuttosto sgradevoli anche in tutt’altri ambienti. Lo sconcerto e persino il fastidio aleggiano inaspettatamente anche nel piccolo recinto della sinistra di alternativa. Almeno in Italia non sono poche le voci che, da quelle file, si sono affannate a suggerire cautele e dubbi, e finanche ostilità, verso il nuovo sindaco di New York. Ciò che in verità mi ha stupito è stato l’eccesso di acrimonia e non tanto l’atteggiamento iper-critico riproposto anche in questa occasione. So bene, infatti, come buona parte della attuale sinistra di alternativa - in particolare, quella che con più altisonanza si autoproclama anticapitalista e si guarda attorno col piglio dell’inquirente che ovunque annusa colpevolezze varie - sia gravemente affetta da una pluriennale e insistente propensione declamatoria. Un giorno sì, e l'altro pure, risuona incalzante la voce di militanti di provatissima fede (persone sicuramente generose e quasi sempre disponibili all’impegno per una società più giusta): è solo la rivoluzione – sottolineano con energia - che può mettere le cose a posto; di conseguenza, tutto il resto serve poco o niente, o è controproducente addirittura...

Siccome questo specifico segmento della politica è davvero ridotto, almeno in Italia, ai minimi termini, potrebbe pur essere utile il consiglio di Virgilio a Dante: non ragioniam di lor, ma guarda e passa... Ma poiché, nonostante i dispiaceri intellettuali che ne ricavo, appartengo impenitentemente anch’io, da molti decenni,  a questo segmento, ho difficoltà a seguire il rassegnato consiglio virgiliano; e sento anzi l'obbligo di spiegare - a me stesso prima ancora che a chi legge – perché mai anche in questo caso, e anzi particolarmente in questo caso, venga fuori quello che in teologia si chiama “peccato di accidia”, condito con quello che in filosofia potremmo chiamare “ipertrofia del soggetto”.

E aggiungo che riflettere su questa circostanza potrebbe essere persino utile in generale: al di là, cioè, del piccolo recinto di cui faccio parte. E già: perché la questione che sta dietro l’accidia nei confronti del mondo e l'ipertrofia della soggettività rivoluzionaria autocentrata riguarda direttamente la Modernità in questo suo nuovo stadio. Rinvia, per dirla con sufficiente brutalità, al fragoroso venir meno dello sguardo storico che caratterizza la nostra epoca in tutte le sue manifestazioni e in tutte le sue espressioni.

Mi spiego. Il cuore della questione risiede nel fatto che bisognerebbe precisare bene l'“oggetto” di cui parlare, su cui prendere posizione. Nel nostro caso è il signor Zohran Mamdani? Con le sue idee, la sua biografia e i suoi propositi? O è l'elezione di Mamdani - nell'anno 2025, sotto la presidenza Trump - a una carica di grande rilevanza pratica e, soprattutto, simbolica?

In un tempo in cui la storia, lo sguardo storico, è il vero grande assente, succede pressoché naturalmente che si parli soprattutto del primo “oggetto” e si consideri il secondo come mero elemento sussidiario, come semplice conseguenza del primo. Ma è proprio questa angolazione del discorso, il suo partire dalle caratteristiche delle persone, che porta facilmente alla distorsione della realtà che si muove, con noi, attorno a noi. Con l’aggravante che noi stessi, privati del contesto storico, saremo continuamente rinviati alle nostre premesse, ai punti di partenza del nostro discorso.

Presumiamo, così, di muoverci e percorrere per davvero il mondo, ma compiamo unicamente falsi movimenti, senza alcuno svolgimento effettivo. Siamo, cioè, costretti – o, se si preferisce, ci auto-costringiamo – alla immobilità pressoché assoluta attorno al nostro ombelico.

 

3) È paradossale (ma forse neppure tanto) che soprattutto coloro che più si professano “rivoluzionari”, e perciò stesso  si ritengono “per natura” in grado di capire il mondo e l'andamento della storia, se ne escano inopinatamente con grossolane affermazioni sulla “famiglia borghese” di Mamdani (ma il padre è un semplice docente universitario e la madre una raffinata regista cinematografica) e sul suo essere visibilmente estraneo alla “tradizione comunista” (la qual cosa, in questo XXI secolo, probabilmente non sarebbe affatto da considerare un limite). Il punto è che, anche tra coloro che provengono per tenui fili dal materialismo storico, il luogo meno frequentato resta proprio la storia. Anzi, lo sguardo storico si è davvero ridotto al lumicino nella sinistra più estrema: non meno, e forse addirittura di più, che nei restanti ambienti politici e culturali.

In altre parole: succede in questi giorni un plateale fatto di rilevanza storica, che ha un evidente peso in un determinato posto del mondo non periferico e particolarmente significativo; e però proprio lo sguardo che si autoproclama “critico” non trova nulla di meglio che guardare ai personaggi... Vince di fatto la tendenza, ormai straripante, di ricostruire anche questa vicenda alla maniera dei fumetti, i quali descrivono la realtà come incessante duello tra il buono, il cattivo e il brutto (che a sua volta è un po’ buono e un po’ cattivo). Per carità, i fumetti possono essere una lettura piacevolissima, e lo dico per esperienza poiché indulgo non di rado a questo piacere. Ma rimane comunque fermo che la rappresentazione fumettistica della realtà è sempre, per l’appunto, una rappresentazione fumettistica.

Così, se è vero che la realtà-in-sé è sempre difficile da cogliere, la rappresentazione fumettistica le si approssima con molta più difficoltà di una rappresentazione che, al contrario, si proponga di connettere i molti segmenti che riusciamo a percepire in ciò che ci sta di fronte, provando magari a collegarli col percorso della loro formazione e la latenza della loro progressione in avanti. Parlo, insomma, del materialismo storico, della visione d’insieme, del paradigma ermeneutico della “totalità”. E c'è poco da fare: mancando questi elementi, i discorsi si presenteranno davvero campati in aria. Si incentreranno facilmente sulle caratteristiche del personaggio e non sul processo storico che in quel personaggio si esprime e che, a un certo momento, sospinge l’intera situazione a ri-delinearsi e prendere forma.

È una mancanza che spiega, ma ovviamente non giustifica, i peccati di accidia e ipertrofia che caratterizzano da lungo tempo i settori della sinistra più critica, quelli che pensano sia un bene e un dovere “riprodurre con precisione il passato” come qualcosa di ancora vitale nel XXI secolo; anzi, come l’unica cosa davvero vitale. E questo passato lo squadernano con pochissimi dubbi sulla validità storica e sulla corposissima ipertrofia delle loro convinzioni: i loro specifici, peculiari trascorsi intellettuali (sovente addirittura le loro biografie) assurgono, quasi per magia, ad eloquente e lineare testimonianza non solo della storia complessiva del Movimento Operaio del Novecento, ma anche di ogni futura palingenesi del mondo. Così, se per accidente dovesse nascere un qualcosa al di fuori di quella filiazione, ebbene, quel qualcosa non potrà mai essere, per principio, qualcosa di buono...

 

4) Non si fraintenda: nelle vicende e nella cultura variegata dell’anticapitalismo del Novecento ci sono di sicuro elementi di persistente vitalità. Ma, nel suo complesso, la parabola del Movimento Operaio del XX secolo e delle sue organizzazioni partitiche e sindacali si è compiuta. Appartiene obiettivamente al passato. E accade piuttosto spesso che proprio dai settori più ammalati di continuismo ideologico quel passato venga distorto e banalizzato, con la più spensierata ignoranza di Marx e di alcuni fondamentali militanti e filosofi rivoluzionari che costituiscono, per come la vedo io, l'autentico lascito vitale di ciò che abbiamo alle spalle: da Lukàcs a Korsh a Bloch a Gramsci a Marcuse a Sartre.

Senza alcuna particolare presunzione di rappresentare “il vero così com'è”, vorrei dunque insistere sul punto che ritengo decisivo: e cioè che l’elezione di Zohran Mamdani costituisce la formidabile conferma di due decisivi elementi interpretativi. Il primo è che ci sono concretissime e insospettate crepe nella rappresentazione mainstream della realtà: essa, cioè, è meno compatta di come vorrebbero far credere. C’è perciò effettivo spazio per discorsi, processi e percorsi alternativi. La seconda conferma è che i percorsi alternativi hanno forza, possono acquistare forza, quanto più si distaccano dal secolo che abbiamo alle spalle; e cioè quanto più non appartengono ai ten⁸ui fili politico-organizzativi che provengono dal Novecento.

Zohran stesso è politicamente un figlio del XXI secolo. Il⁸ suo riferimento politico fondamentale è l'esperienza di Occupy Wall Street del 2011. E lo stesso si può dire per le figure più note del DSA, come Alexandria Ocasio-Cortez o Rashida Tlaib: nella loro formazione è stata assolutamente centrale non la cultura comunista, bensì la cultura libertaria e umanitaria. La qual cosa vale anche per il grande vecchio di questo arcipelago politico, Bernie Sanders.

Ma a ben vedere, in questo XXI secolo la formazione non-comunista delle figure-simbolo delle crepe nel muro mainstream è piuttosto la regola, almeno in Occidente: da Pablo Iglesias e l'esperienza di Podemos in Spagna a Oscar Lafontaine e la costruzione della Linke in Germania. Ma lo stesso vale anche per il greco Alexis Tsipras, per l’inglese Jeremy Corbin, per il francese Jean-Luc Mélenchon: tutte persone (e le parole non sono un caso) caratterizzate da una cultura appunto socialista e poco o per nulla comunista. E se poi ci spostiamo in America Latina - da Evo Morales (Bolivia) a Pepe Mujica (Uruguay) a Inácio  Lula (Brasile) a Hugo Chávez (Venezuela) a Andrés López Obrador (Mexico) a Gustavo Petro (Colombia) - la cosa diviene ancora più evidente...

 

5) Qual è la differenza essenziale tra questa diffusa cultura socialista (o populista o democratica di sinistra, se si preferisce) e la cultura comunista (che è stata di gran lunga prevalente nell'anticapitalismo del XX secolo)? È in ciò: che la cultura socialista, diversamente dalla cultura comunista, ha dentro di sé come “valori forti” - e cioè con forza pari, se non superiore, al valore dell’uguaglianza - il tema della libertà e il tema dell'individuo.

Poi si può senz’altro convenire che tanto la libertà quanto l'individuo siano paradigmi in sé contraddittori, che possono essere declinati (e sono stati effettivamente declinati) in modo opposto. Ma in effetti è un paradigma contraddittorio anche l'uguaglianza: da un lato, perché tende spontaneamente a misconoscere la pluralità dei percorsi di soggettivazione ed emancipazione nella storia del mondo; e, dall'altro, perché anche i regimi da caserma si fondano sull’uguaglianza, e la irreggimentazione della società avviene immancabilmente su basi ugualitarie...

Insomma, c'è poco da fare: l’anticapitalismo del XXI secolo può essere costruito, in particolare nei paesi a capitalismo avanzato, solo con una connessione strettissima di uguaglianza e libertà. E anzi bisognerebbe tenere nel giusto conto anche il tema della fraternità. Quando queste tre parole – liberté, égalité, fraternité - furono proclamate alla fine del XVIII secolo avevano la pregnanza che potevano avere all'interno della logica illuminista, una pregnanza necessariamente astratta, concettualmente e praticamente separata dalla realtà sociale e dai suoi movimenti. Ma oggi, nel XXI secolo, la connessione stretta di queste tre parole può anche avere, anzi può senz'altro avere, significazione storica.

Che comporta tutto questo? Una cosa piuttosto semplice a dirsi e molto difficile a farsi, ma assolutamente necessaria: e cioè che, oggi come oggi, coloro che ambiscono a un mondo più giusto debbono uscir fuori dalla propria corteccia, dalla propria identità per come se la sono trovata o l'hanno costruita. Tutti debbono uscir fuori dal passato che hanno vissuto o sognato, e “ripartire da capo” come suggeriva Gramsci: non da due o da tre, ma proprio da capo. Ripartire esattamente da quelle tre parole. Che sono la pietra angolare d’ogni emancipazione e liberazione; e che possono essere il lievito fondamentale di una modernità a misura di essere umano, diversa e anzi completamente opposta a quella che attualmente ci circonda.

 

 


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