I COMUNISTI E LA LOTTA PER LA PACE. BREVE NOTA A MARGINE.

Quando una soggettività politica concentra la discussione su di sé invece che sul mondo che ha attorno, è destinata, di norma, a non andare molto lontano. Se poi l'attitudine autoreferenziale dovesse persistere anche in presenza di grandi sconvolgimenti storici, è quasi certo un conclamato esito di irrilevanza. Dico questo perché la proposta di una “lista unitaria di scopo per la pace” alle elezioni per il Parlamento europeo, proposta che è venuta da Michele Santoro e Raniero La Valle, l'avrebbero dovuta fare, prima di loro, proprio coloro che perseguono una esplicita alternativa di società rispetto agli attuali rapporti sociali: e cioè talune formazioni politiche come Rifondazione Comunista, Potere al Popolo e altre consimili, oppure taluni soggetti del sindacalismo conflittuale come i Cobas o l’USB. La guerra, infatti, è il tema assolutamente decisivo che abbiamo davanti, specie con l’attuale allargamento e incrudelimento dei combattimenti sia in Ucraina che in Palestina.

È un tema, beninteso, che va molto al di là di una campagna elettorale; e che, anzi, rimarrà a lungo come la vera questione nodale del nostro tempo, benché la mobilitazione per la Pace sia ancora assente e poco capace di imporsi in un dibattito largamente rimasto alle alternative tradizionali di conservatori e progressisti, e destra e sinistra. Ma chi ragiona in modo abitudinario è oggi del tutto inadatto a cogliere le stesse immediate conseguenze sociali e politiche delle dinamiche di guerra: in particolare, il fatto che si accelera e si rafforza la tendenza a sostituire la democrazia con la democratura e la normalità democratica col similfascismo. Del resto, lo striminzito risultato elettorale di qualche settimana fa sull’alternativa secca “o la Pace o la Guerra” è una riprova purtroppo eloquente della difficoltà di far vivere la visione storica d’insieme in questo nostro livido tempo, già di suo disattento e ostile all’impegno collettivo; sicché la corsa verso la tragedia acquista ancora più slancio proprio perché fa leva sul senso comune del presentismo individualista, straordinariamente privo di storia e di visione e così diffuso nelle società opulente. 

Ad ogni modo, quando la guerra c'è davvero – stiamo parlando non di una guerra qualsiasi, ma della progressione rapidissima verso un apocalittico nuovo conflitto mondiale –, ebbene quando c’è questo, l’elenco degli obiettivi, delle questioni e dei problemi non può essere quello dei tempi normali. Dev’essere giocoforza riscritto. E ciò vale, a maggior ragione, per chi intenda porsi in un’ottica anticapitalista e voglia continuare a camminare “in direzione ostinata e contraria”. La Pace, in particolare, non potrà essere più, come ancora negli anni complicati e comunque pieni di atrocità del recente passato, semplicemente il primo punto di un programma elettorale o di una piattaforma di rivendicazioni politico-sindacali. Nell’attuale, tragico scenario storico, la Pace è una cosa che sta al di sopra e al di fuori della lista degli obiettivi e delle rivendicazioni.

Voglio dirlo in maniera più netta: la Pace come specifico obiettivo programmatico, o anche la Pace posta con enfasi come primo punto del programma specifico dei comunisti e degli anticapitalisti, andavano senz’altro bene prima del 2022, e cioè in un contesto più o meno “normale” della modernità capitalistica, quando già eravamo circondati da gravi tensioni internazionali, con lacerazioni sanguinose e autentiche guerre guerreggiate in determinate aree; e con l’aumento comunque delle spese militari e del militarismo. La rivendicazione della Pace manteneva allora la sua importanza, anzi andava assunta come obiettivo realmente caratterizzante del programma. Questo poteva bastare: perché in quel recentissimo passato, e cioè fino a tre anni fa, non c'era ancora la guerra che c’è oggi. Ma una guerra come quella di oggi non la si può più affrontare coi paradigmi dei “tempi normali”. Soprattutto non dovrebbero farlo coloro che si richiamano alla tradizione del Movimento Operaio.

In estrema sintesi: chi presume di camminare nel solco dell’anticapitalismo dovrebbe far pienamente valere l’attitudine, che fu tipica di Marx e dei rivoluzionari più autentici del Novecento, a non parlare indipendentemente dal contesto storico in cui si è inseriti. “Contesto storico”, insisto; e non semplicemente “contesto sociale”. Anzi, per il materialismo storico, l’avvio di ogni ragionamento dovrebbe comportare sempre il “corpo a corpo” analitico e interpretativo con lo specifico passaggio di fase nel quale si vive. E questo per me significa capire che la guerra attuale non riguarda solo l’Ucraina e la Palestina, dove già si spara e si muore, ma è realmente, è effettivamente una guerra mondiale. Si sta svolgendo, per ora, nella forma di pezzi staccati; ma i pezzi tendono a raggrupparsi. E, in aggiunta, diviene sempre più chiaro (se si guardano le cose con la dovuta attenzione) che le classi dirigenti mondiali non ce la fanno, non ce la possono fare con la logica della “ragion di Stato”, a smontare il meccanismo che si è messo in moto. Giorno dopo giorno la corsa verso il baratro piglia caratteri più cupi e drammatici.

A me pare evidente, dunque, la necessità di una discussione veramente approfondita sul tempo storico che viviamo. Questa discussione, in particolare nelle file degli anticapitalisti, dovrebbe accompagnarsi a una chiarificazione urgente anche sui “fondamentali” del marxismo, e anzi sull’idea medesima che si ha della Storia del Movimento Operaio. A tal riguardo, vorrei spendere qualche parola su  un autentico equivoco semantico e logico, oltre che teoretico, che persiste nel confronto interno agli attuali recinti della sinistra di alternativa. Mi riferisco alla  indebita sovrapposizione del concetto di  “comunista” e del concetto di “partito comunista”.  

Certo: “Comunisti” e “Partito Comunista” possono sembrare in determinati momenti la stessa cosa. È successo spesso in passato. E potrebbe succedere ancora. Ma resta il fatto che nella sostanza non sono sinonimi. E in verità non lo sono mai stati neppure sul piano storico, nonostante il diluvio di scomuniche, scissioni, invettive e deformazioni che hanno punteggiato la storia dei comunisti in tutti gli angoli del mondo. “Comunisti” e “Partito Comunista” non sono affatto la stessa cosa. E l’una cosa non postula necessariamente l’altra. Si può essere comunisti – per ideali, convinzioni e comportamenti politici – senza avere alcuna tessera di Partito; e si può essere molto distanti – per modo di essere, di pensare e di agire - dalla soggettività comunista in senso proprio, pur possedendo magari un’autentica collezione di tessere di un qualche Partito Comunista. Ma, in ogni caso, questo è il meno. Non è l’aspetto decisivo della questione.

Per dirla allora in una battuta, io sono convinto che “i comunisti” potrebbero avere una funzione straordinaria di chiarificazione, oltre che di resistenza e tenuta di civiltà, esattamente in relazione all’attuale contesto storico di lacerazione e guerra. E la loro funzione credo che dovrebbe essere  veramente di camminare "in direzione ostinata e contraria", indicando la realtà della guerra mondiale a una società che tende facilmente a ignorarla. Le persone, almeno in Italia, sono maggioritariamente schierate (sul piano dell'opinione) attorno al valore della Pace; ma non credono affatto che siamo davvero  all'inizio di una guerra mondiale. Non credono che il sangue quotidianamente versato in Ucraina o in Palestina (per il quale provano sicuramente orrore e sgomento) ci riguardi effettivamente in modo diretto e immediato. La verità è che neppure nei contesti più informati si pensa per davvero che la guerra mondiale sia già in corso.

Ecco: io ritengo che i comunisti dovrebbero caratterizzarsi anzitutto su questo aspetto dirimente, agendo da elemento di effettiva consapevolezza storica e contribuendo a creare, in modo aperto e inclusivo, assieme a chiunque voglia concretamente impegnarsi, tanti appositi "Coordinamenti Territoriali Per la Pace e i Diritti". In sostanza: spazi autorganizzati di riflessione e iniziativa. E coloro che volessero dare una mano dovrebbero sentirsi accolti, in tali Coordinamenti, come risorse necessarie al pari degli altri, indipendentemente dalla eventuale appartenenza politica o sindacale. In tal modo, per come concepisco io la militanza politica, i comunisti dovrebbero fungere da apripista di un Movimento generale contro la guerra e a difesa dei Diritti. E, in verità, credo che potrebbero avere questa funzione – e la dovrebbero attivamente svolgere - proprio in quanto individui “comunisti”, indipendentemente dal fatto che siano organizzati o non organizzati come membri di un formale Partito Comunista. 

D'altronde, già nel Novecento i comunisti hanno ampiamente agito in forme diverse e molteplici: alcune volte si sono mossi come membri di formazioni politiche autonome e dichiaratamente comuniste, altre volte hanno agito come “tendenza programmatica” in partiti politici non comunisti, altre volte ancora si sono strutturati come collettivi di impegno sociale, altre volte sono stati soprattutto attivisti di lotte e di movimenti, altre volte ancora si sono definiti come gruppi di lavoro intellettuale. E il giudizio che si dovrebbe dare di loro andrebbe soprattutto riferito all'effettivo impatto sociale che riuscirono ad avere. Non avrebbe molto senso parlare dei comunisti del Novecento, così grandemente articolati, partendo dalle loro forme organizzate. Per intenderci: l’importanza del sindacalismo Wobbly o del gruppo redazionale della Monthly Review negli USA del XX secolo credo sia fuori discussione; ed è altrettanto fuori discussione che entrambe siano state esperienze più significative, per impatto storico, del Partito Comunista Americano…

Detto in breve, non basta la proclamazione astratta della giustizia sociale. Se le parole che pronunciamo non si traducono in una reale mobilitazione sociale, allora non le dovremmo giudicare molto diverse dal flatus vocis di cui parlavano gli scrittori latini. Ovviamente l’impatto sociale non va misurato dall’oggi al domani. C’è bisogno di tempo perché venga alla luce. Ma alla fine, a fronte di un congruo tempo storico, è comunque un bene che lo si misuri. E se la misurazione dovesse dare esiti insoddisfacenti, non è affatto necessario estendere la possibile consumazione di una specifica linea di condotta, o anche di una determinata esperienza organizzativa, alla cultura e all’ideale che le avevano originate. Anche in questi casi va fatta valere la distinzione tra le forme organizzate dell’attivismo comunista e l’identità comunista profonda; la quale è sempre in formazione ed è obbligata perciò a una continua “tempesta del dubbio”. Per sintetizzare: essere comunista significa sempre lottare per esserlo. Non solo contro lo stato di cose presenti ma anche all'interno del proprio animo e in riferimento alle proprie convinzioni.

Certo: il bilancio storico serio di una specifica esperienza organizzata dovrebbe comprendere anche un giudizio più o meno organico sulla declinazione specifica che quella esperienza avrà dato della storia e della cultura complessiva del Movimento Operaio. Ma non è necessario che vada molto avanti in tale direzione. Non è necessario, cioè, che apra anche a una discussione ultimativa sugli esiti storici dell’ideale comunista. Del resto, la discussione sul valore storico dell’ideale comunista è sempre rimasta aperta fin dalle origini: proprio perché si tratta di un ideale perennemente in divenire; che chiede continuamente di essere ridiscusso e riarticolato. Ma fatta salva questa precisazione, voglio ripeterlo: per come la vedo io, i comunisti rimangono oggi necessari; anzi, in un passaggio storico così oscuro e drammatico, lo sono ancora di più. E però bisogna anche sapere, e lo debbono sapere i comunisti per primi, che le forme con le quali agiscono - intendo le loro strategie e le loro tattiche, ma anche le loro stesse strutture organizzate - dipendono non astrattamente dalla teoria, bensì proprio dall’insieme delle condizioni storiche. Sono, cioè, sempre storicamente determinate; e sono perciò immediatamente sottoposte all’andamento reale di nascita, crescita, declino e tendenziale consunzione della propria storicità.


Rino Malinconico


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