BRECHT E LA "IDENTITÀ PREGIUDIZIEVOLE" DEI COMUNISTI

 

di Rino Malinconico

Qui di seguito una anticipazione del libro "L'Io e il Noi. Dalla Espressione alla Interpretazione", che uscirà a fine estate.

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Secondo Intermezzo

  BRECHT E LA "IDENTITÀ PREGIUDIZIEVOLE" DEI COMUNISTI

 

In stretta continuità con la sua adesione ideale al comunismo, definitivamente maturata nel biennio 1928 – 29, Bertolt Brecht scrisse nel 1930 La linea di condotta (die Maßnahme, letteralmente “Il provvedimento”), primo vero dramma didattico (Lehrstück, Lezione).[i] Quel testo, una “cantata politica” creata in collaborazione con il compositore Hanns Eisler,[ii] inaugurò sia il sodalizio con Eisler e sia la svolta apertamente pedagogica della drammaturgia brechtiana, diventando nel tempo un significativo, ancorché problematico esempio di riflessione teatrale sulla politica rivoluzionaria. Di fatto, già a partire dalla prima rappresentazione l’opera suscitò accanite polemiche, al punto che l’autore giudicò opportuno sospendere le repliche.

La storia si presenta piuttosto semplice: a Mosca tre agitatori comunisti debbono giustificare, di fronte a un Coro di controllo, l'uccisione del loro giovane compagno durante una missione in Cina.[iii] Per farlo ripercorrono, recitandola, l'intera vicenda, con la finalità di fornire al Coro tutti gli elementi di conoscenza per il giudizio. Ricostruiscono, in sostanza, i passaggi nodali della condotta della vittima, dal primo incontro, avvenuto nell’ultima sede del Partito prima della frontiera con la Cina, alla drammatica e sofferta decisione finale.

Si trattava di un compagno entusiasta, precisano gli agitatori,[iv] offertosi di unirsi a loro come guida: cosa davvero necessaria per un gruppo obbligato a celare accuratamente la propria identità. L’azione, infatti, si svolge nella cupa stagione che segue il massacro dei militanti comunisti del 1927 ad opera dell’esercito del Kuomintang e dei signori della guerra. È un periodo davvero tragico: i comunisti sono ferocemente perseguitati in quasi tutta la Cina, e l’educazione e l’organizzazione dei lavoratori sono severamente proibite. 

Il responsabile del Partito aiuta perciò gli agitatori, divenuti ora quattro, a travestirsi da cinesi (la qual cosa, sul piano scenico, si concretizza indossando delle maschere), raccomandando di tenere scrupolosamente nascosta la loro identità. La missione deve rimanere segreta: l’essere scoperti come attivisti della Internazionale Comunista metterebbe in gravissimo pericolo l’ancora fragile organizzazione clandestina. Gli agitatori e il giovane compagno partono dunque, consapevoli dei rischi e delle precauzioni necessarie; ma, una volta in Cina, a contatto con la spaventosa condizione di ingiustizia e con la più brutale delle oppressioni, il giovane non riesce a contenere la sua indignazione e agisce più volte d’impeto, senza alcuna prudenza.

Il primo episodio ricostruito dagli agitatori mette in luce, contemporaneamente, la condizione miserevole dei lavoratori cinesi e l’atteggiamento pietistico del giovane. La scena si svolge sulla riva del fiume che attraversa i quartieri più poveri della città di Mukden, dove due coolies s’affannano a tirare una barca piena di riso. Non hanno scarpe ai piedi e continuano a scivolare, provocando la rabbiosa reazione del sorvegliante, che li frusta senza misericordia. Gli agitatori inviano il giovane a camminare di fianco ai due coolies per spronarli a chiedere al sorvegliante almeno scarpe munite di listelli, che impediscano di scivolare. Egli prova a convincere i due, ma, preso dalla compassione, inizia affannosamente ad aiutarli mettendo pietre sotto i loro piedi quando rischiano di scivolare. Continua a fare questo fino allo stremo, sempre scongiurando i coolies di richiedere le scarpe.

Ovviamente il sorvegliante s’accorge che l’intento del nuovo venuto è istigare i due, e dà l’allarme. Il giovane riesce a scappare, ma per una settimana tutti e quattro gli agitatori sono costretti a  nascondersi, mentre si infittiscono i controlli nella città bassa. A questo punto, il Coro chiede agli agitatori se non fosse stato giusto aiutare i più deboli nella loro vita di oppressi. Essi rispondono che in quel modo non li si è aiutati, ma si è solo compromessa la propaganda dei classici della rivoluzione in quella parte della città. Il risultato è che si è impedito ai coolies di ricevere gli strumenti teorici indispensabili per l’iniziativa politica e per le loro lotte:

 

AGITATORI: il giovane compagno riconobbe che aveva disgiunto il sentimento dalla ragione ma noi lo consoliamo e gli dicemmo le parole del compagno Lenin: savio non è chi fa errori, savio è chi sa prontamente correggerli.

 

La missione procede comunque positivamente, con la creazione di cellule comuniste nelle fabbriche della città, con l’avvio di vere e proprie scuole di partito e con la diffusione clandestina di volantini. Si arriva ben presto alla costruzione di un primo sciopero generale, e il giovane compagno viene incaricato di distribuire dei volantini specificamente rivolti agli operai ancora titubanti tra il lavoro e lo sciopero. Ma proprio mentre il giovane distribuisce i volantini, un poliziotto interviene malmenando un operaio:

 

POLIZIOTTO (strappa al primo operaio il volantino): Chi ti ha dato questo volantino?

PRIMO OPERAIO: Non lo so, me l'ha dato di nascosto uno che mi passava accanto.

POLIZIOTTO (si precipita sul secondo operaio): Glielo hai dato tu il volantino. Noi della polizia cerchiamo quelli che diffondono questi foglietti.

SECONDO OPERAIO: Io non ho dato foglietti a nessuno.

GIOVANE COMPAGNO: È dunque un delitto chiarire la loro condizione a quelli che non la conoscono?

POLIZIOTTO: I chiarimenti portano terribili conseguenze. Se voi chiarite le idee agli operai di queste fabbriche, finirà che non riconosceranno più i loro veri padroni. Questo piccolo volantino è più pericoloso di dieci cannoni.

GIOVANE COMPAGNO: Che cosa ci sta scritto?

POLIZIOTTO: Questo non lo so. (al secondo operaio) Che cosa ci sta scritto?

SECONDO OPERAIO: Io non l'ho visto, quel volantino, non l'ho distribuito io.

GIOVANE COMPAGNO: Io so che non è stato lui.

POLIZIOTTO: (al giovane compagno) Gliel'hai dato tu, il volantino?

GIOVANE COMPAGNO: No.

POLIZIOTTO: (al secondo operaio) Allora glielo hai dato tu.

GIOVANE COMPAGNO: (al primo operaio) Che cosa gli succederà?

PRIMO OPERAIO: Possono anche fucilarlo.

GIOVANE COMPAGNO: Perché vuoi fucilarlo, poliziotto? Non sei un proletario anche tu?

POLIZIOTTO: (al secondo operaio) Su andiamo! (lo colpisce sulla testa).

GIOVANE COMPAGNO: (cerca di impedirglielo) Non è stato lui.

POLIZIOTTO: Allora sei stato tu!

SECONDO OPERAIO: Non è stato lui!

POLIZIOTTO: Allora tutti e due!

PRIMO OPERAIO: Scappa, amico, scappa, hai la tasca piena di volantini!

Il poliziotto abbatte il secondo operaio.

GIOVANE COMPAGNO: (indicando il poliziotto, al primo operaio) Ha abbattuto un innocente, tu ne sei testimonio.

PRIMO OPERAIO: (aggredendo il poliziotto) Cane venduto!

 

Alla immediata e violenta colluttazione partecipano sia il giovane compagno che i due operai. Il poliziotto infine soccombe, e quell’esito spaventa a morte proprio i due operai indecisi:

 

SECONDO OPERAIO (rialzandosi, al primo) Abbiamo abbattuto un poliziotto e domani non potremo più entrare nella fabbrica, e la colpa (al giovane compagno) è tua.

GIOVANE COMPAGNO: Se andate in fabbrica, tradite i vostri compagni.

SECONDO OPERAIO: Io ho moglie e tre bambini, e quando voi avete abbandonato il lavoro e vi siete messi in sciopero, a noi hanno aumentato il salario. Guarda: avevo doppia paga! (mostra il denaro).

GIOVANE COMPAGNO: (con un pugno gli fa cadere di mano i soldi) Vergognatevi, razza di venduti!

Il primo operaio gli balza addosso, mentre il secondo raccoglie i suoi soldi. Il giovane compagno, con un colpo di mazza, abbatte il suo assalitore.

SECONDO OPERAIO (grida) Aiuto! Ai provocatori!

 

Le grida richiamano gli operai presenti in fabbrica, che mettono brutalmente in fuga sia il giovane compagno e sia gli scioperanti che manifestano davanti ai cancelli. Giunti al termine della ricostruzione scenica, gli agitatori riportano la critica che avevano rivolto al giovane: egli aveva facilitato il degenerare della situazione senza tener conto che l'unico modo per difendersi veramente dalla polizia sarebbe stato proprio di convincere gli operai incerti e ostili a rafforzare l'unità della lotta e ad essere solidali con lo sciopero. 

Ma il giovane compagno darà prova di inadeguatezza - dicono gli agitatori - anche in un successivo passaggio particolarmente delicato. Incaricato di trattare con un commerciante una partita di armi, indispensabili per avviare la rivolta dei coolies, il giovane non riesce a controllare il disgusto per le convinzioni sprezzantemente reazionarie dell'interlocutore, il quale lo aveva invitato a pranzare con lui. Ce la fa a non reagire alla vanagloria del commerciante - «Perché io riesco ad avere tutto più a buon mercato? […] Perché sono un uomo intelligente» -, come pure al “segreto degli affari” che quello sorridendo gli squaderna - «a un coolie bisogna dare tanto riso quanto basta perché non muoia, altrimenti  non può più lavorare» -, ma non riesce a ingoiare la cinica indifferenza per la condizione umana con la quale chiude la Canzone della merce:

 

C'è del riso laggiù al fiume,

nelle province alte gli uomini hanno bisogno di riso.

Se noi lasciamo il riso nei magazzini

il riso costerà loro più caro.

Allora i battellieri del riso avranno ancora meno riso,

e a me il riso costerà ancor meno.

Che cos'è di preciso il riso?

So io cos'è un chicco di riso?

So io chi lo sa?

Io non so cos'è un chicco di riso,

so solo il suo prezzo.

 

[…]

 

Un uomo così ha bisogno di troppo cibo,

perciò l'uomo diventa più caro.

Per procurare il cibo, ci vogliono uomini.

I cuochi lo fanno meno costoso, ma

i mangiatori lo fanno rincarare.

E poi, gli uomini sono troppo pochi.

Che cos'è di preciso un uomo?

So io cos'è un uomo?

So io chi lo sa?

Io non so che cos'è un uomo,

so solo il suo prezzo.

 

In breve, il giovane si rifiuta di condividere il pranzo con il commerciante, la qual cosa fa saltare l’acquisto delle armi. E gli agitatori chiudono la ricostruzione dell’episodio  con un giudizio piuttosto lapidario: il compagno s’era fatto prendere dall’orgoglio, e questo aveva impedito ai coolies di armarsi. 

Ciò nonostante, si moltiplicano le agitazioni in città e cresce la tensione rivoluzionaria. Ed è a questo punto che il giovane compagno si convince che bisogna assolutamente passare all’azione. In un serratissimo dialogo con gli altri tre (che porta alla drammatica rottura) propone, accalorato, l’occupazione delle caserme:

 

GIOVANE COMPAGNO: La miseria si fa sempre più grande e l'agitazione aumenta in città.

I TRE AGITATORI: Gli ignari incominciano a riconoscere la loro condizione.

GIOVANE COMPAGNO: I disoccupati hanno accettato la nostra dottrina.

I TRE AGITATORI: Gli oppressi stanno acquistando la coscienza di classe.

GIOVANE COMPAGNO: Sono scesi nelle strade e vogliono demolire le filande.

I TRE AGITATORI: Manca loro l'esperienza rivoluzionaria: tanto maggiore la nostra responsabilità.

GIOVANE COMPAGNO: I disoccupati non possono più aspettare, e anch'io non posso più aspettare: sono troppi i miseri.

I TRE AGITATORI: Ma troppo pochi ancora sono i combattenti.

GIOVANE COMPAGNO: Le loro sofferenze sono spaventose.

I TRE AGITATORI: Soffrire non basta.

GIOVANE COMPAGNO: […] Sanno che la miseria non cade dai tetti come una tegola; ma che la sventura e la miseria sono un'opera dell'uomo. Indigenza è il piatto preparato per loro da quelli che si cibano dei loro lamenti. Sanno tutto.

I TRE AGITATORI: Sanno quanti reggimenti ha il governo?

GIOVANE COMPAGNO: No.

I TRE AGITATORI: Allora sanno troppo poco. Dove sono le vostre armi?

GIOVANE COMPAGNO: (mostrando le mani) Lotteremo con le unghie e con i denti.

I TRE AGITATORI: Non basterà. Tu vedi soltanto la miseria dei senzalavoro, non la miseria di quelli che lavorano. Vedi soltanto la città, non vedi i contadini della pianura. Tu vedi nei soldati soltanto degli oppressori, non dei miserabili in uniforme che opprimono. Va dunque dai disoccupati, ritratta il tuo consiglio di occupare le caserme, e convincili a partecipare stasera alla dimostrazione degli operai all'uscita dalle fabbriche, mentre noi cercheremo di convincere i soldati malcontenti a parteciparvi anch'essi con noi, in uniforme.

GIOVANE COMPAGNO: Io ho ricordato ai disoccupati quante volte i soldati gli hanno sparato addosso. E adesso devo dir loro che devono fare una dimostrazione insieme con degli assassini?

I TRE AGITATORI: Sì, perché i soldati possono riconoscere che era sbagliato sparare sui miseri della loro stessa classe. Ricorda il classico consiglio di Lenin, di non considerare i contadini come nemici di classe, ma di conquistare la miseria dei villaggi come alleata nella lotta.

GIOVANE COMPAGNO: Ma io domando: i classici tollerano che la miseria aspetti?

I TRE AGITATORI: Essi parlano dei metodi con cui si deve affrontare la miseria nel suo insieme.

GIOVANE COMPAGNO: Quindi i classici non vogliono che per prima cosa ogni misero sia aiutato subito e senza indugio?

I TRE AGITATORI: No.

GIOVANE COMPAGNO: Allora i classici sono merda, e io li strappo; perché l'uomo, l'uomo che vive, urla; e la sua miseria abbatte tutti gli argini della dottrina …

 

Al termine della lite il giovane annuncia la sua decisione: avvierà subito la lotta. E per sottolineare l’irrevocabilità della scelta, butta via la maschera, svelando la sua identità russa e chiamando (però senza effetto) i miseri alla lotta. Il risultato è che le guardie subito accorrono per arrestare l’intero gruppo. Allora gli agitatori, senza frapporre indugio, tramortiscono il giovane e lo portano esamine con loro, fuggendo dalla città.

Il resto avviene con impressionante rapidità: il gruppo non riesce a distanziare gli inseguitori e trova momentanea sosta presso una cava di calce. Soldati e poliziotti sono vicinissimi ed essi debbono rapidamente decidere il da farsi. Continuare a scappare con il compagno privo della sua maschera è impossibile, perché sarebbe riconosciuto ovunque come non-cinese. Ma anche nasconderlo sarebbe stato terribilmente rischioso. Lo avrebbero trovato facilmente, visto il poco tempo disponibile. Lo avrebbero torturato per farlo parlare e alla fine lo avrebbero comunque ucciso. In breve: pur con angoscia decidono di fucilarlo, e di buttarlo nella cava di calce per renderne impossibile il ritrovamento. E qui Brecht fa loro dire, rivolti al Coro di controllo (ma in realtà agli spettatori): «anche voi adesso riflettete cercando una soluzione migliore».[v]

Al giovane, che in quel frangente rinviene, i tre illustrano concitatamente la drammaticità della situazione e la decisione di ucciderlo e farlo sparire nella calce. Gli chiedono se lui riesca a vedere una qualche altra soluzione. Il giovane riflette rapidamente e concorda: non c’è altra soluzione. Chiede solo di essere aiutato a morire.[vi]

Per inciso, la conclusione tragicamente penosa della vicenda tornerà in seguito utile a Brecht, perché gli permetterà di dichiarare - di fronte alla Commissione per le Attività Antiamericane - che quel finale dovesse interpretarsi come “suicidio assistito” e non come omicidio. All’accusatore, che nell'ottobte del 1947 gli chiedeva se non avesse sostenuto, proprio in Die Maßnahme, la liceità dell’omicidio politico nei confronti persino dei propri compagni di fede, se fosse stato «nell’interesse del partito comunista»,[vii] egli spiegò il dramma riallacciandolo alla pratica dello harakiri ampiamente rappresentata dal teatro Nō giapponese come devozione per un ideale fino alla morte. Così Brecht ricostruì, a caldo, l’interrogatorio:

 

D'accordo con i 18 e con gli avvocati, io, in quanto straniero, ho risposto alla domanda [ovvero, se fosse o no iscritto al partito comunista americano, nda.], e precisamente ho risposto con un «no», cosa che corrispondeva al vero. L'accusatore Stripling dà lettura di molti passi della Linea di condotta e si fa raccontare da me la trama. Io rinvio al modello giapponese, indico come tema la dedizione a un'idea e respingo l'interpretazione secondo cui si tratterebbe di un assassinio di carattere disciplinare, spiegando che si tratta invece di autoannientamento. Riconosco che il fondamento dei miei drammi è marxista e constato che, specialmente nel caso di drammi con un contenuto storico, non è possibile scriverli in maniera intelligente in un qualche modo diverso. L'interrogatorio è esageratamente cortese e finisce senza alcuna imputazione; mi torna utile il fatto che non ho avuto quasi niente a che fare con Hollywood, che non mi sono mai intromesso nella politica americana e che coloro che mi hanno preceduto sul banco dei testimoni si sono rifiutati di rispondere ai membri del Congresso. I 18 sono molto soddisfatti della mia deposizione, anche gli avvocati.[viii]

 

Io ritengo, in verità, che tanto il litigio quanto il dialogo finale dovrebbero indurre a profonde meditazioni, anche al di là di quello che ne pensava l'autore. Nel litigio, infatti, prima ancora che proposte diverse, si confrontano due descrizioni nettamente alternative della realtà. Il giovane compagno presenta le cose come una dinamica rivoluzionaria già in corso; i tre sottolineano, di contro, come non ci sia alcuna precipitazione rivoluzionaria ma soltanto una maturazione progressiva della coscienza proletaria. 

Fin dalle prime rappresentazioni quei due convincimenti sono stati ricondotti, nei dibattiti infervorati che l'opera suscitava, al contrasto tutto politico tra l’impazienza rivoluzionaria (o il velleitarismo, se si preferisce) e l'azione più meditata di tessitura dello schieramento di classe. Li si è visti, cioè, come una disputa attorno al nodo ricorrente dell’estremismo, ovvero attorno al tema dell’agire politico che forza di continuo le situazioni, indipendentemente dal grado di maturità delle condizioni oggettive. Per ciò che interessa invece in questa sede, le due contrapposte descrizioni rinviano, sì, a visioni politicamente diverse, ma mettono soprattutto in luce due differenti sguardi olistici sul mondo

A separare in modo così netto i quattro è esattamente ciò che nel saggio sulla Descrizione ho indicato come identità pregiudizievole, una sorta di "a-priori identitario" che caratterizza necessariamente l'io nel suo iniziale rapporto conoscitivo col mondo. Si tratta della visione d’insieme (sentimentale ancor prima che intellettuale) che sorregge le convinzioni nell’intimo di ciascun io. È proprio la visione olistica di partenza che conduce il giovane compagno lungo un sentiero obiettivamente “altro” rispetto al cammino dei tre agitatori. 

Prima ancora che dalla impazienza rivoluzionaria, egli è motivato, infatti, dall’idea presupposta che la verità delle cose sia costituita dalla materialità immediata del vivere, da lui assunta con una densità ben più forte di qualsivoglia teoria interpretativa del vivere stesso. Il suo sguardo è perciò molto diverso dallo sguardo che proviene dalla idea presupposta dei tre agitatori, la quale non ha come paradigma fondativo il vivere immediato, bensì il vivere storico. Non le urgenze dell’esistere, ma le dinamiche della trasformazione costituiscono l’architrave dei loro ragionamenti.

E preciso ulteriormente: per le finalità epistemiche della presente riflessione, il punto veramente decisivo non è neppure la genesi delle due identità presupposte - il mondo come immediatezza per il giovane compagno e il mondo come costruzione per i tre agitatori -, bensì la loro forza condizionante.[ix] E questo vale anche nelle vicende normali della vita: i convincimenti in contesa tra loro sono quasi sempre qualcosa di più della semplice difformità di opinioni. Rimandano, cioè, a un sentire profondo. Nelle situazioni normali degli esseri umani agisce infatti, molto più spesso di quanto si sarebbe indotti a credere, proprio ciò che qui ho indicato come visione olistica presupposta del funzionamento del mondo. Con la conseguenza che sarà sempre molto difficile, in particolare nelle discussioni che postulano un agire concreto, giungere a sintesi ed evitare rotture. Per andare avanti c’è bisogno che qualcuno abbandoni la contesa e non la porti fino all’estremo...  

D'altronde, questa diversità di sguardo permane anche nel colloquio finale dell’opera, allorché il giovane compagno concorda sulla necessità della propria soppressione. Non è che egli cambi punto di vista: è l’immediatismo delle contingenze che lo spinge a concordare con gli altri tre. Per dirla in breve: mentre nella logica degli agitatori, la tragica soluzione nasce linearmente con riferimento alle dinamiche di lungo periodo, alle dinamiche storiche (la salvaguardia del processo rivoluzionario), il giovane dice di sì, e si sacrifica scientemente, per superare una specifica e immediata strettoia dell’esistenza rivoluzionaria, che pone loro quattro di fronte al dilemma obiettivo di perire tutti, oppure sacrificarne uno per far vivere gli altri tre. Ed è bene rimarcarlo: i tre agitatori fanno la tragica proposta esclusivamente a beneficio del progetto rivoluzionario,[x] e non certo per salvare se stessi. Non a caso, al centro della loro preoccupazione è posta visibilmente la cancellazione del giovane, non semplicemente la sua uccisione. Bisognava farlo sparire nella calce e non solo togliergli la vita.

So bene come sia piuttosto difficile sfuggire all'impressione di affinità della declinazione brechtiana della violenza, che fu sicuramente dei comunisti della sua epoca, col ritratto del rivoluzionario costruito dagli ambienti anarchici più estremi dell'Ottocento. Nella pubblicazione anonima del Catechismo del rivoluzionario (1871), redatto dal russo Sergej Nečaev, probabilmente con l'apporto di Bakunin prima della rottura tra i due,[xi] il rivoluzionario è lapidariamente definito come un “uomo perduto in partenza”, che “non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome”. È ruvidamente chiamato a vivere con “un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione”. Anzi, avendo “spezzato ogni legame con l’ordinamento sociale e con l’intero mondo civile, con tutte le leggi, gli usi, le convenzioni sociali e le regole morali di esso”, il rivoluzionario, per conservarsi tale, doveva avere come unico scopo la distruzione dell'ordine esistente. A tal fine:

 

Egli disprezza l’opinione pubblica. Disprezza e detesta la morale vigente nella società in ogni suo motivo e manifestazione. Per lui è morale tutto ciò che contribuisce al trionfo della rivoluzione; immorale e criminale tutto ciò che l’ostacola. Il rivoluzionario è un uomo perduto, spietato verso lo Stato e verso la società istruita in genere; da essa non deve dunque aspettarsi nessuna pietà. Fra lui da una parte, lo Stato e la società dall’altra, esiste uno stato di guerra, visibile o invisibile, ma permanente e implacabile – una guerra all’ultimo sangue.

 

Non solo. Quest'uomo che disprezza ogni manifestazione dell'attuale società e che conosce come unico valore morale il trionfo della rivoluzione da perseguire con tutta la spietatezza necessaria, sarà “duro verso se stesso … e duro anche verso gli altri. Tutti i sentimenti teneri che rendono «effeminati», come i legami di parentela, l’amicizia, l’amore, la gratitudine, lo stesso onore, devono essere soffocati dall’unica fredda passione per la causa rivoluzionaria. Per lui non esiste che un’unica gioia, un’unica consolazione, ricompensa e soddisfazione: il successo della rivoluzione. Giorno e notte, deve avere un unico pensiero, un unico scopo: la distruzione spietata. Aspirando freddamente e instancabilmente a questo scopo, deve essere pronto a morire, e a distruggere con le proprie mani tutto ciò che ne ostacola la realizzazione”. In breve:

 

La natura del vero rivoluzionario esclude ogni romanticismo, ogni sensibilità, entusiasmo e infatuazione. Esclude anche l’odio e la vendetta personali. La passione rivoluzionaria, diventata in lui una seconda natura, deve in ogni momento essere unita a un freddo calcolo.[xii]

 

Certo, Brecht e i comunisti non hanno mai visto la violenza come la “via maestra” che tratteggiava Nečaev. L’hanno sempre concepita come una dura, terribile necessità, avvertendone fino in fondo la tragicità problematica. E anzi sarà proprio Brecht, in una splendida poesia scritta nell’esilio danese, a tratteggiarla come un’amarissima disgrazia, come doloroso fardello da caricarsi sulle spalle: 

 

Voi che sarete emersi dai gorghi

dove fummo travolti

pensate

quando parlate delle nostre debolezze

anche ai tempi bui

cui voi siete scampati.

Andammo noi, più spesso cambiando paese che scarpe,

attraverso le guerre di classe, disperati

quando solo ingiustizia c’era, e nessuna rivolta.

Eppure lo sappiamo:

anche l’odio contro la bassezza

stravolge il viso.

Anche l’ira per l’ingiustizia

fa roca la voce. Oh, noi

che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,

noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora

che all’uomo un aiuto sia l’uomo,

pensate a noi

con indulgenza.[xiii]

 

In ogni caso, tornando a La linea di condotta, sulla questione della violenza non c’è alcuna disparità di vedute tra il giovane compagno e i tre agitatori. Divergono magari sulle condizioni in cui occorre adoperarla e sui passaggi storici che la rendono indispensabile, ma non sul fatto che debba comunque contemplarsi nella pratica rivoluzionaria. E in verità essi sono accumunati anche da una identità presupposta ancora più significativa.

Per tutti loro infatti, così come è stato in genere per i comunisti del Novecento, la dinamica rivoluzionaria ha assolutamente bisogno dell'intervento esterno dell'avanguardia, la quale si sente chiamata a intervenire in particolare dove ristagni il conflitto spontaneo di classe. La pratica della “esportazione della rivoluzione” è stata, anzi, una vera costante per tutto il secolo; e sono state davvero migliaia i militanti che hanno fatto la scelta impervia ed esaltante, e non di rado funesta, del rivoluzionario di professione, quello, per l'appunto, che cambia “più spesso paese che scarpe attraverso le guerre di classe”.

C'è poco da dire, nell'identità pregiudizievole del movimento operaio dell'Ottocento e del Novecento, e di conseguenza anche nell'identità pregiudizievole dei comunisti, un punto fermo è stato ininterrottamente costituito dall’idea che fosse indispensabile la funzione dell'avanguardia politica (il partito comunista) come guida del percorso di emancipazione delle classi sfruttate e oppresse. Poi però il Novecento si è concluso. E nel tempo nuovo della modernità dispiegata anche la dinamica rivoluzionaria ha cominciato a cambiare di fisionomia.

Nelle nuove condizioni sociali e culturali del nostro tempo è emerso, infatti, un paradigma che nell'Ottocento e nel Novecento non era per nulla contemplato: l'autorganizzazione. E intendo, con questo termine, soprattutto l'autorganizzazione diretta degli sfruttati e degli oppressi: sia in riferimento alle dinamiche di conflitto e sia riguardo ai processi storici di trasformazione sociale. Fa un passo indietro, cioè, l’importanza dell’identità comunista.

Intendiamoci: non che i comunisti non possano più avere una funzione storica. Ma ora essi "sono chiamati" non più a guidare, bensì ad accompagnare i processi sociali di emancipazione e di liberazione. E ciò li porta linearmente oltre i dilemmi drammatici che hanno tormentato i loro padri e i loro nonni nel Novecento, e che Brecht ha così emblematicamente rappresentato in quel piccolo capolavoro che è La linea di condotta. Allorché si determina una effettiva distanza storica, non ha più senso l’appello che gli agitatori rivolgevano al Coro e agli spettatori: “riflettete cercando una soluzione migliore”. È proprio la condizione di partenza che è mutata.

Del resto il XXI secolo non è il XIX e neppure il XX. È qualcosa di veramente nuovo, soprattutto nei Paesi a capitalismo avanzato e ad alta scolarizzazione. E d'altra parte, io non sostengo affatto che i comunisti non abbiano cose da fare anche in questo XXI secolo. Ma il loro fare più autentico penso che dovrebbe consistere esattamente nel favorire la crescita dell'autorganizzazione e del protagonismo diretto delle persone a tutti livelli. Questo dovrebbe essere il loro impegno costante e prioritario. Che poi, a ben vedere, sarebbe uno straordinario impegno educativo; educativo proprio nel senso migliore del termine. 

Immagino, cioè, una attività politica svolta direttamente nelle contraddizioni sociali, e che non abbia bisogno di superstrutture politico-organizzative da innalzare, né di medaglie da mettere in mostra e né di vessilli identitari da sventolare in prima fila. Si tratterebbe, in sostanza, del quotidiano e poco appariscente lavoro (che giudico "rivoluzionario" in senso proprio) di con/costruzione delle dinamiche collettive di resistenza e trasformazione.

Detto in modo ancora più chiaro: in una situazione obiettivamente disperante (simile cioè alla Cina di allora) i comunisti di oggi dovrebbero “semplicemente” cooperare in termini paritari, con la parola e con l’impegno diretto, alle dinamiche di autorganizzazione. Non potranno essere loro a mettere in moto i processi politici di alternativa, e tantomeno i processi storici di trasformazione. Potranno solo affiancare attivamente il conflitto: divenendo, quanto più possibile (il che non è per nulla facile), un’unica cosa con gli sfruttati e gli oppressi già disponibili a mettersi in gioco. Non debbono pretendere, insomma, “ruoli di guida” e non debbono puntare a sostituire con le loro bandiere il protagonismo diretto delle persone che concretamente vivono, soffrono e sperano attorno a loro.

 

 

NOTE



[i] L’anno prima aveva scritto Il consenziente e il dissenziente (Der Jasager e Der Neinsager), che pure si configurava come “teatro didattico”. Ma sarà proprio La linea di condotta, anche per le annotazioni dell’autore sulle modalità della messa in scena, a portare a piena maturazione le tecniche tipicamente brechtiane dello straniamento, della rottura della quarta parete e del coinvolgimento pieno del pubblico, configurando perciò un teatro eminentemente politico. Sull’insieme del Teatro di Brecht, cfr. F. Ewen, Bertolt Brecht: la vita, l'opera, i tempi, prefazione di P. Grassi, Feltrinelli, Milano 1970, nonché il lavoro del compianto (è venuto meno nel 2024) Fredric Jameson, Brecht e il metodo, trad. di G. Episcopo, Cronopio, Napoli 2008.

[ii] L’opera consta di otto sezioni in prosa e versi liberi, con sei canzoni. Cfr. B. Brecht, La linea di Condotta, in “Teatro”, a cura di E. Castellani, introduzione di Hans Mayer, Einaudi (III Edizione), Torino 1963, vol. I, pp. 755 – 791.

[iii] In realtà sono essi stessi a chiedere di essere giudicati: «AGITATORI: noi lo abbiamo ucciso. Lo abbiamo fucilato e gettato in una cava di calce. CORO DI CONTROLLO: Cosa aveva fatto perché lo abbiate fucilato? AGITATORI: Spesso ha agito giustamente, qualche volta ha sbagliato, ma alla fine ha messo in pericolo il movimento. Voleva ciò che era giusto e agiva in modo sbagliato. Chiediamo il vostro giudizio».

[iv] Così, infatti, si presenta il giovane: «Il mio cuore batte per la rivoluzione. Lo spettacolo dell’ingiustizia mi spinse a entrare nelle file dei militanti: l’uomo deve essere d’aiuto all’uomo. Sono per la libertà. Credo nell’umanità. E sono per la linea di condotta del partito comunista, che lotta contro lo sfruttamento e contro l’ignoranza, per una società senza classi».

[v] “Come la bestia aiuta la bestia / anche noi volevamo aiutarlo, lui che aveva / lottato con noi per la nostra causa. / Per cinque minuti, sotto gli occhi degli inseguitori, / riflettemmo in cerca di una / migliore soluzione. Anche voi adesso riflettete cercando / una soluzione migliore”.

[vi]PRIMO AGITATORE: Se ti prendono ti fucilano, e poiché sarai riconosciuto, il nostro lavoro verrà tradito. Perciò dobbiamo fucilarti e gettarti nella cava di calce, perché la calce ti bruci. Ma noi ti domandiamo: puoi indicarci un'altra soluzione? GIOVANE COMPAGNO: No. I TRE AGITATORI: Allora ti domandiamo: sei d'accordo? GIOVANE COMPAGNO (pausa): Sì. I TRE AGITATORI: Dove dobbiamo gettarti? GIOVANE COMPAGNO: Nella cava di calce. I TRE AGITATORI: Vuoi farlo da solo? GIOVANE COMPAGNO: Aiutatemi”.

[vii] Il 30 ottobre 1947 Brecht fu interrogato a Washington (in qualità di testimone e non di accusato) dalla Un-American Activities Committee, la nota Commissione Senatoriale presieduta da Joseph McCarthy  che guidò la cupa stagione repressiva a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, nota anche come “caccia alle streghe”. Brecht viveva dal 1941 a Santa Monica in California, dove s’era stabilito dopo la fuga dalla Germania nazista e le lunghe peregrinazioni in Europa (Cecoslovacchia, Austria, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Russia). A ogni modo, il drammaturgo lasciò definitivamente gli USA il giorno dopo l’interrogatorio, e tornò in Europa.

[viii] Cfr. B. Brecht, Diario di Lavoro, a cura di W. Hecht, Einaudi, Torino 1976, Vol. II (1942 – 1955), p. 865.

[ix] Io ritengo che tanto la visione olistica del mondo come immediatezza, quanto la contrapposta visione olistica del mondo come costruzione si potrebbero collegare, con plausibili argomentazioni, a più profonde e antiche identità storiche. avviatesi fin dalla notte dei tempi nella lunga e tormentata vicenda umana. Ma qui non serve procedere col “metodo archeologico” dell’indagine, alla maniera del Foucault pre-genealogico, poiché il cuore della riflessione che propongo non è affatto costituito dai “tipi definiti di discorso, che hanno in loro stessi il loro particolare tipo di storicità, e che sono in relazione con tutto un insieme di storicità diverse”, quanto piuttosto dalla conseguenzialità descrittiva e argomentativa che i discorsi storicamente maturati producono nella visione d’insieme degli specifici “io”, rinchiudendoli ciascuno nella propria identità presupposta. Sulla “archeologia del sapere” di Michel Foucault, cfr. M. Foucault, Archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, a cura di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1980. La citazione è a p. 207.

[x] “Decidemmo dunque: subito / mozzare il nostro piede dal corpo. / È terribile uccidere. / Ma non solo gli altri, uccidiamo se occorre anche noi stessi / poiché solo con la violenza si può / trasformare questo mondo omicida, come / sa chiunque vive. / A noi, dicemmo, ancora / non è concesso di non uccidere. E unicamente / con l'inflessibile volontà di trasformare il mondo motivammo / questa linea di condotta”.

[xi] Cfr. M. Confino, Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l’affare Necaev, Adelphi, Roma 1976.

[xii] Riportato in M. Confino, Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l’affare Necaev, cit.

[xiii] Cfr. B. Brecht, “An die nachgeborenen [A coloro che verranno]” in Poesie di Svendborg, traduzione di F. Fortini, Einaudi, Torino 1976.

 

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